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Epistemologia Clinica

Della sofferenza. UNA INTRODUZIONE EPISTEMOLOGI ALLA PSICOTERAPIA

Della sofferenza. Appunti fenomenologici come introduzione alla psicoterapia[1]

 

 

 

  1. Al di là e prima di ogni definizione specialistica di psicoterapia; al di là e oltre le specificazioni complesse e tra loro, come vedremo, anche contraddittorie dei suoi obiettivi, metodi, tecniche; al di là, infine, dei molteplici e altrettanto antinomici modelli di mente e, più profondamente, di uomo  che si ritrovano, almeno implicitamente  alla base dei diversi orientamenti della psicoterapia contemporanea; al di là di tutto questo, pare indubbio che qualsiasi discorso sulla psicoterapia non possa che configurarsi come collaterale al più ampio e preliminare discorso sulla sofferenza psichica, in quanto sofferenza specificamente umana. Così umana da essere coestensiva col concetto stesso di natura umana. E quindi sofferenza che esprime, manifesta e testimonia  qualcosa di costitutivo dell’uomo in quanto uomo, in quanto specificamente diverso da ogni altro essere vivente.
  2. Le modalità del soffrire psichico, le sue origini, il suo svilupparsi, il suo permeare la persona incidendo sull’intera trama della sua esistenza, condizionando tempi, forme, qualità delle esperienze affettive, relazionali, ludiche, lavorative; il suo incidere sui modi e i contenuti della consapevolezza di sé; tutto questo consente e anzi obbliga a considerare la sofferenza psichica come orizzonte insuperabile della vita dell’uomo; come luogo e occasione del suo realizzarsi o perdersi; come contesto strutturale del suo stesso possibile diventare pienamente uomo o donna.
  3. Tutto questo obbliga quindi ad un’ampia introduzione alla  natura della sofferenza psichica.  
  4. Esattamente come impone una ricognizione sui modi, le strategie che gli esseri umani, come individui e gruppi e società, hanno “inventato” e continuano ad inventare per proteggersi da tale sofferenza: ovvero, per diluirla, allontanarla, controllarla, nasconderla: in breve, per sopravvivere a quella sofferenza.  
  5. Altresì, in forza di 3.  4., siamo costretti ad ammettere che la condizione umana – a differenza di quella animale – sia stabilmente iscritta nell’orizzonte del patire, così che il vivere sia sempre (anche un) sopravvivere. 
  6. Di qui, infine, la necessità di comprendere come nei processi biogenetici e, soprattutto, psico-sociali (intrapsichici e relazionali) di costruzione dell’identità individuale – di ciò che fa sì che ciascuno possa dirsi e sentirsi “Io” – debbano rinvenirsi le ragioni dell’inevitabile rischiosità insita nella forma-uomo – nell’esatta misura in cui tale “forma” è perennemente esposta al rischio di destabilizzarsi, di de-formarsi, di de-strutturarsi, provando ansia, angoscia, terrore. 

 

 

 

 

 

L’ubiquità del patire.

 

  1. Per quanto ovvia ed evidente, l’affermazione, così cara alla filosofia buddista, dell’universalità della sofferenza, anzi della sua strutturale inerenza al vivere umano è una di quelle verità così …vere da apparire anche banali…per poter così essere definitivamente accantonate. Rimosse.
  2. Ciò non dovrebbe sorprendere in un mondo (quello Occidentale) e in una cultura (anch’essa occidentale e post-moderna) che proclama la felicità un diritto e ne parla come risultato raggiungibile e praticamente alla portata di (quasi) tutti.
  3. Nel secolo della felicità, del ben-essere la sofferenza, pur continuando ad esistere e, come vedremo, a diffondersi e manifestarsi in forme sempre più complesse e sfaccettate, non può (non deve?) essere pensata, né detta. Appunto e solo rimossa, messa da parte, nascosta.
  4. Certo, la sofferenza può esplodere clamorosamente, come negli attacchi di panico: la cui “essenza” risiede appunto nel far esplodere una sofferenza mai detta e occultata a se stessi in modo tale da renderla ancora più occulta, nascosta e mistificata sub specie corporis. E del resto è tipico, per chi ha sperimentato un attacco di panico, sviluppare un timore di morire legato alla percezione, assunta come vera, di avere un corpo che sta andando a pezzi ed una mente che…lo segue. Far soffrire il corpo diviene, così, l’ultima sponda compromissoria tra una sofferenza che non è più contenibile e che abbisogna di emergere  e la necessità di tenere occulta l’origine di quella stessa sofferenza.
  5. del resto, in una società pateticamente e tragicamente narcisistica, ove il diritto (come si vedrà assurdo e patogeno) ad essere felici diviene inevitabilmente un obbligo ad essere felici così che il non esserlo prova il fallimento dell’individuo, soffrire equivale a sentirsi brutti in un mondo ove bisogna essere belli. Non è assolutamente un caso – e anche su questo si tornerà –  che mai come in questa epoca così ricca e tecnologicamente sviluppata, il corpo è divenuto fonte di costante preoccupazione e la sua cura (fitness, wellness) causa di ansie disagi sofferenze e patologie pandemiche come quelle anoressico-bulimiche o dismorfobiche e/o somatoformi. Così che possiamo prendere atto del paradosso per cui lo spasmodico desiderio di vincere la sofferenza (sia essa fisica, che mentale che di status) si configuri oggi come una delle cause strutturali del diffondersi vuoi  di nuove forme di sofferenza psicologica vuoi dell’intensificarsi di quelle “vecchie”. Paradosso che è poi l’altra faccia, coerente ed inevitabile, di quello riscontrato anche a livello di ricerca sociologica e antropologica: nelle società occidentali, lo sviluppo tecnologico e scientifico, l’aumento relativo del benessere economico, lo stesso innalzamento (anche se fragile) dei livelli di istruzione di base e la migliore tutela giuridica (oggi però entrata in crisi) dei ceti produttivi più deboli non ha trascinato con sé un aumento della “felicità percepita” e, anzi, ha visto crescere costantemente il disagio psicologico attraverso una crescita esponenziale del consumo di psicofarmaci e di sostanze psicotrope sotto vario nome, titolo e forma (dalla sigaretta alla cannabis, dall’alcool a comportamenti suicidali). Possiamo insomma dire che si è creata una stabile lacerazione tra la logica dello sviluppo socio-economico e la logica della crescita e maturazione psicologica.
  6. Questa lacerazione pensiamo costituisca l’orizzonte attuale della fenomenologia della sofferenza psichica. In particolare costituisce ciò che ci spiega il perché di quel deficit di mentalizzazione, di quella difficoltà ad e-laborare; digerire, metabolizzare la sofferenza; a sua volta causa/effetto degli automatismi stimolo-risposta; azione-reazione; bisogno-soddisfacimento; dolore-anestesia; progetto-risultato che rappresentano modalità comportamentali viepiù diffuse e potenzialmente auto-eterodistruttive. E che assumono, oggi, valenze, significati e manifestazioni fenomeniche anche nuove proprio in riferimento a quel deficit di mentalizzazione appena accennato.

 

L’orizzonte attuale della (nuova) sofferenza psichica.

 

  1. Viviamo, infatti, in un mondo di cose e immagini. In un mondo s-pensierato: letteralmente, senza pensieri. O dove il pensiero, la riflessione, il tempo per capire sono al margine, forse in esilio. Visti come qualcosa di strano-estraneo-straniero. Addirittura di inutile.
  2. Viviamo nel mondo dell’”a che serve?”. Dove le cose hanno valore se servono a qualcosa. Si noti però, a qualcosa di pratico, tangibile, che si vede, che dà risultati evidenti e concreti. Possibilmente, risultati anche immediati, o a breve.
  3. Possiamo quindi integrare la nostra asserzione iniziale (punto 1) dicendo: viviamo in un mondo di cose ed immagini orientato all’utile e scandito dal presto: dalla velocità, dal cambiamento rapido, dalla costante accelerazione dei processi di sostituzione del vecchio col nuovo. Siamo in un mondo costantemente sull’orlo di scomparire: non appena qualcosa appare, ecco che subito invecchia e già lascia il posto a qualcosa d’altro, che di lì a poco, scomparirà a sua volta.
  4. Siamo nel mondo della moda. In un mondo ove la moda (= immagine e transitorietà) rappresenta il paradigma, la logica, il criterio dell’essere delle cose e delle persone.
  5. E tutto si fa effimero. La vita una successione di istanti. Una continua interruzione. Sì, perché gli istanti non possono evolversi, non possono distendersi diventando durate, lassi di tempo, periodi, fasi, stagioni, cicli ecc. Essi vengono sistematicamente sostituiti uno con l’altro. Uno dopo l’altro. Anzi, vengono eliminati. In questo modo, gli istanti di tempo sono necessariamente istanti leggeri e quasi vuoti. Granelli di sabbia. Possiedono sì una pregnanza acuta e intensa, una densità consistente ma solo per il tempo del loro fugace apparire. Sono spasmi e morsi. In essi non c’è (più) il tempo del gusto. Sono “sveltine”: scariche.
  6. Nell’epoca dell’abbondanza, aumenta l’insaziabilità degli obesi: di chi ha già. Pieni di cose veloci, velocemente, voracemente assunte, non possiamo concederci il tempo della sazietà: appunto, del satis, del “basta”, basta così. E’ abbastanza (sufficit). Nulla basta, più. E nulla può davvero bastare. Se bastasse, tutto si fermerebbe. Solo il consumo sistematico (velocità e scarti: lo spreco come necessità della produzione dell’acquisto) consente di adeguarsi al puro continuo divenire, cambiare, mutare.
  7. La scomparsa del pensiero – assorbito da cose-immagini – ha lasciato il posto alla pura volontà di volere. Ad un volere incontinente, anarchico, in-sensato, distruttivo, suicida. Non è una reale volontà di vivere quella che struttura il mondo delle cose ed immagini; il mondo senza pensiero. Bensì una reale volontà di perdersi tra-nelle-con-per le cose. Vivere diviene un dis-perdersi per non dis-perarsi. Per fuggire quel vuoto essenziale che è la profonda struttura del divenire puntiforme, anzi di quella pura punteggiatura senza testo che è il mondo delle cose ed immagini. Di più: quella volontà di volere è “pura” in senso forte: pura perché volontà paraistintuale, pura pulsione. Appunto: un volere senza pensiero, senza giustificazione e fondamento. Come giustificare in assenza di tempo? Del tempo del pensiero, del ragionamento che si sviluppa e comprende per approssimazioni, tentativi, errori: discorsi. E come “fondare” senza “scavare”, senza “andar giù”, “sotto” il puro volere e trovare il “perché”, il “fine”, il “senso” di quel volere e del volere questo invece di quello?
  8. Nella società del puro volere, il potere diviene l’unica ragione e criterio del fare. Se posso farlo, allora voglio farlo. Se si può, si fa. E come non farlo se non si dà la pensabilità del potere e del volere?  La possibilità del fare, a sua volta, diviene l’unica preoccupazione collettiva. Una sorta di “legge di natura”. Tolto il pensiero, tutto diviene un “come” e il “perché” scompare. Assieme al senso.
  9. Nel mondo del vivere centenario,  della vita che si estende sempre di più, si è perso il senso del vivere. Così che si sono aperte le porte per una lunga vita in-sensata. Ci avviamo a vivere di più non sapendo più come vivere, perché, in vista di quali mete e alla luce di quali speranze e progetti. Per questo, la morte, rimossa dalla grande rappresentazione massmediale (matrice di un nuovo inconscio collettivo),  opera nascostamente come la grande protagonista del nostro tempo. Essa incombe silenziosamente su ogni attimo di questa vita che si allunga. E non può essere altrimenti: diventando la vita un continuo, dissennato tentativo di allontanare il più possibile la morte, quest’ultima viene a configurarsi come il rumore di fondo di questo vivere; il ghigno sarcastico di quel nulla che la vita in-sensata è già diventata..
  10. Da qui, o da qui vicino, non può non partire una attenta rilettura e ridefinizione della logica e del senso dell’agire psicoterapico: di quell’agire pensato e sentito che dovrebbe promuovere quei livelli di consapevolezza (di sé, dei propri bisogni, delle proprie emozioni, delle proprie risorse) indispensabili per una matura gestione del dolore; per  un suo accoglimento non fobico-difensivo; per un suo superamento creativo;
  11. Di qui, o da qui vicino, dovrebbe anche derivare una pratica della psicoterapia ipnotica capace di accogliere questi luoghi e contesti di non-pensiero, di un puro afasico sentire (spesso panicale, talvolta depressivo, talaltra svuotato e sfiduciato) per poi restituirli al paziente sotto forma di occasioni di senso: appunto, come occasioni per re-incontrare quel deposito di senso, di saggezza, di desiderio consegnato e conservato nell’inconscio ed elicitabile  attraverso un accorto e delicato “utilizzo” di stati modificati di coscienza nel contesto di una valida relazione comunicativo-affettiva (rapport)  .[2]

 

 

 

 

 



[1] Il presente lavoro rappresenta una sintesi, inevitabilmente schematica, dei punti-chiave, di carattere epistemologico, esposti distesamente  in alcune lezioni dello scorso anno. La scansione per punti è stata adottata per consentire tanto un  maggior livello di chiarezza espositiva, quanto e soprattutto  per favorire un controllo critico sui singoli passaggi e quindi ottenere un feed-back di stimoli, suggerimenti e osservazioni

[2] La bibliografia è disponibile presso la segreteria.

Per un modello multisistemico

 

Per un modello multisistemico, dinamico e discorsivo dell’uomo nel contesto metodologico e formativo della clinica psicoterapica.

 

 

Dott. Ivano Lanzini

Psicologo, epistemologo, psicoanalista

 

"…dell’immortalità dell’anima si è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un diopotrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve." 

Platone, Fedro 146 a 

 

"The most merciful thing in the world, I think is the inability of the human mind to correlateall its contents " (*) 

H.P. Lovecraft, The Call of Cthulhu

(*) "Penso che la cosa più meritevole di compassione al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutti i suoi contenuti"

 

 

 

Una premessa come "giustificazione" dei limiti.

 

Il presente lavoro nasce da problematiche epistemiche e si muove verso finalità teoretiche e formative che nascono non solo dalla ricerca epistemologica per quel tanto (ed è molto) che di essa positivamente interferisce nei processi di comprensione della psicologia, della psicoterapia e della psichiatria contemporanee, ma anche, e in larga misura, dalla decennale esperienza didattica interna alla nostra Scuola, ove progressivamente più strutturata si è venuta configurando, grazie a domande sempre più lucide e mirate, l’esigenza di una migliore impostazione di tematiche strategiche concernenti: la struttura concettuale profonda del "sapere" psicologico (in tutte le sue diramazione ed orientamenti); le ragioni delle tensioni antagonisticheche attraversano tale sapere, specie nei suoi versanti applicativi; il senso e la possibilità della costruzione di un reale rapporto e pratica interdisciplinare nello studio e nella "cura" della sofferenza psichica, capace tanto di superare i rischi del riduzionismo organicistico, quanto quelli di un sociologismo verboso o del misticismo spiritualista di tante medicine e terapie "alternative".

Come tutti i quesiti strategici, che attengono cioè ai fondamenti di un sapere (e in questo caso, addirittura di più saperi: medici, psicologici, antropologici, sociologici), essi non possono ricevere risposte né dirette, né tantomeno esaustive, ma solo indirette e approssimate. "Risposte" cioè che svolgano o tentino di svolgere una funzione di preliminare chiarificazione concettuale delle problematiche in esame, nella speranza di promuovere, poi, una più avanzata impostazione delle problematiche così chiarite.

A rendere poi i suddetti quesiti ancora più complessi, se non enigmatici, interviene - in modo per certi versi drammatico e sconcertante – il riconoscimento di come essi tutti implichino per poter ricevere qualsiasi tipo di chiarimento legittimo e razionale che si parli prima e finalmente di qualcosa che essi stessi presuppongono…senza però esserne realmente consapevoli. Ci riferiamo all’idea o concetto di "Uomo", a cosa debba intendersi con tale termine che sembra denotare un qualcosa rispetto al quale i diversi saperi disciplinari ardiscono presentarsi quali approfondimenti tematici di alcuni suoi attributi fenomenici: biologici, psicologici, socio-culturali ecc.

 

Per questa ragione, abbiamo ritenuto opportuno porci come obiettivo essenziale dell’intero lavoro quello di tracciare la cornice epistemologica più adeguata alla costruzione di un modello di uomo, capace di essere assunto e operare come luogo di contestualizzazione rigorosa dei saperi teorici e pratici implicati nello studio e nella cura della specifica fenomenologia psicopatologica dell’uomo e quindi come occasione per un ripensamento complessivo delle relazioni intercorrenti sia e primariamente tra quegli stessi saperi sia, onde evitare qualsiasi ingenua sopravvalutazione dei nostri saperi "psi", delle relazioni intercorrenti tra tutti i saperi disponibili sul sistema uomo.

 

Va da sé, pertanto, che il presente lavoro assumerà una forte connotazione meta-disciplinare, e quindi ci obbligare a ri-pensare il nostro pensare disciplinare dell’uomo, a porre tra noi e questo pensare una forte distanza critica. Una distanza così forte da renderci un po’ esploratori dei nostri stessi paesaggi disciplinari, questa volta però rivisti con sguardo stupito e nuovo: l’unico possibile per vedere davvero qualcosa: sia essa un qualcosa di realmente nuovo, sia essa un problema in luogo di qualcosa di precedentemente dato per scontato.

 

 


A.Chiarimenti terminologici, premesse filosofico-epistemiche ed implicazioni discorsive.

 

 Procederemo secondo un ordine logico-schematico.

  1. parliamo di "modello" in senso epistemicamente debole tale cioè da non richiedere né mai produrre impegnative asserzioni di valenza ontologica..

Per le stesse ragioni, non si intende qui proporre un "qualcosa" che si colleghi direttamente a un "qualcos’altro". Non si vuole cioè dare per ovvio e scontato alcun rapporto lineare, diretto e certo tra modello e ciò che il modello include o denota. Anche perché tra "modello" e "res" si riconosce una problematicità non solo relazionale, di modo, ma, appunto, anche ontologica, concernente il cos’è della cosa (in questo caso specifico, dell’Uomo)

Si tratta in breve di un modello-modo di organizzare dati di/su qualcosa che non puòancora, e per rigorose ragioni di merito e metodo, connettersi a quel qualcosa, anche perché, per molti aspetti, quel "qualcosa" è oltre il suo orizzonte di visibilità (e questo sia per la limitatezza di quest’ultimo, sia per l’ubiquità eccentrica del qualcosa, sia forse per la sua esistenza instabile, metamorfica…noumenica).

 

2. questo modello-di-"uomo" insomma non ci parla dell’uomo, bensì di come l’uomo sembraapparire, in seconda, mediata, meditata, e già parzialmente arte-fatta battuta: precisamente quella battuta che segue ed è l’operazione del ritaglio disciplinare (più o meno diretto – dopo Popper questo "più o meno" è divenuto doveroso e quasi universalmente accettato) attuato sulla complessa fenomenologia dell’uomo (e dell’umano).

3. Graficamente questa relazione in-diretta (e, vedremo, non ontologicamente fondata) tra il nostro "Modello" e l’"Uomo" assume il seguente aspetto o andamento logico-metodico:  

Per un modello multisistemico - Sito del dott. Ivano Lanzini

Per un modello multisistemico

Per un modello multisistemico - Sito del dott. Ivano Lanzini

 

Ci teniamo a fare notare come questo andamento evidenzi la sistematica dipendenza del modello rispetto alla sua sequenza genetica – anche se tale dipendenza non è totale, dal momento che deve consentire lo "spazio" a quelle delle ipotesi costruttive che fanno del modello un modello (e non una mera fotocopia di dati).

 

  1. Fondamentale, in questo tratteggio di costruzione del Modello, risulta il passaggio "fenomenologia"-"discipline". Giacchè è in tale passaggio che il Modello affonda le sue basi empiriche e quindi, anche le condizioni iniziali di una sua eventuale corroborazione. Tale passaggio, storicamente, si scandisce in quell’imponente processo di scomposizione fenomenica e di coerentizzazione della metodologia dell’indagine sull’uomo che, a partire, grosso e foucaultianamente, dal XVII° secolo (con la "Nascita della clinica") si sviluppa lungo tutto l’800 e gran parte del ‘900 (mantenendosi sostanzialmente integro sino alle soglie del post-modernismo), e che ha messo capo a tre fondamentali letture dell’umano:
  • biologica;
  • psicologica;
  • socio-culturale ("antropologica") col relativo darsi e definirsi di ritagli disciplinari sempre più accurati , accorti, "agguerriti", al punto da rivendicare impegnativi pronunciamenti ontologici, dotati addirittura di istanze o pretese esplicative.

 

  1. Effetto vistoso e numinoso di questo processo di disciplinarizzazione forte del sapere e del sapere sull’uomo in particolare è stato e, in buona misura, ancora è il movimento riduzionistico che esso non può che produrre in forza della rigidità dei ritagli disciplinari, delle loro inevitabili implicazioni ontologiche e, conseguentemente, della necessitata curvatura riducente dell’asse esplicativo – che si cangia, infatti, sempre comunque, in una "ultima analisi", secondo una logica a scatole cinesi ove la fisica e le sue leggi (e, si noti, le sue implicite assunzioni ontologiche) si fanno "ultima analisi" della chimica, della biologia, della psicologia, della sociologia, dell’antropologia – esattamente come il "gene egoista" diventerà l’ultima strategica scatola non solo delle strutture etologico-comportamentali, dei vissuti, delle strategie relazionali umane, ma anche (schopenauherianemente?) dello stesso filosofare!

 

  1. Non pleonastico – in tempi di attacchi spesso di matrice letteraria al riduzionismo paleo e neopositivistico – è rammentare il carattere storicamente obbligato del riduzionismo disciplinare essendo esso tutt’uno:
  1. da un lato con l’emergere, grazie anche a non epistemicamente neutri sviluppi tecnologici, di una messe sbalorditiva di dati fenomenici capaci di far emergere dense strutture dell’essere – fuor di metafora, di far "apparire" insiemi organizzati e funzionali di elementi macro e microstrutturali che hanno dato nuovo senso ed intelligibilità al vivente, allo psichico, al sociale e al culturale - basti rammentare, esemplificativamente:
  • la complessificazione delle conoscenze cellulari e genomiche e, più latamente, microsomatiche;
  • la complessificazione, al limite della confusività babelica, dei modelli di mente;
  • la forte pluralizzazione degli sguardi sociologici e antropologici;

 

  1. dall’altro lato, si tratta di un riduzionismo in larga misura sospinto dal bisogno e dalle strategie di comprensione del complesso e del conoscere stesso, giacchè conoscere è sempre e comunque un semplificare (solo la conoscenza divina essendo o potendo essere realmente …adeguata)

 

  1. Ciò detto e sottolineato, si deve ribadire e ormai prendere atto dell’insostenibilità teoretica, metodologica, gnoseologico-esplicativa e, possiamo addirittura asserire, "ontologica" del riduzionismo: del suo inconsistente scivolare da un ricondurre metodico, rispettoso della complessità dell’oggetto, ad un suo incontinente darlo per compreso nella forma della sua mutilazione fenomenica. Il riduzionismo diviene dunque, oggi, pericoloso non solo perché settoriale e falso, ma soprattutto perché mistificante e gravido di implicazioni morali, etiche: foriero di una pratica culturale violenta, in ogni caso oppressiva ed illiberale – di quell’illiberalismo tipico e paradossale dello scientismo: vera perversione dell’atteggiamento scientifico e di ogni atteggiamento critico verso l’apparire delle cose ed il sapere di/su di esse.
  2. Se il riduzionismo, come sopra rammentato, è l’effetto di una disciplinarizzazione del sapere che, in forza della sua efficacia, si impegna ontologicamente, così riducendo il tutto ad una parte strategica o ultima o fondamentale, allora il suo superamento implica la ricerca di modalità di connessione tra le discipline, e quindi l’elaborazione di modelli che, senza nulla togliere allo specifico competenziale delle discipline in ordine alla costruzione di determinati percorsi metodologici, siano in grado: a) di rendere ragione del senso della complessità dell’oggetto, del macro-oggetto di studio; b) di produrre un punto di vista "superiore" non solo e tanto perché più allargato, bensì perché inevitabilmente più critico (nell’accezione qui epistemicamente forte: di chieder ragione e giustificazione di).
  3. Per quanto concerne l’oggetto- uomo, un modello a nostro parere euristico potrebbe essere quello schematicamente rappresentato nell’Allegato 1.

 

Tale modello presenta le seguenti essenziali caratteristiche epistemiche:

  1. asserisce l’opportunità, empiricamente e disciplinarmente corroborata, di intendere l’ente uomo (così come appare dicibile alla luce della fenomenologia attualmente documentata dalle indagini disciplinari in esso coinvolte) come ente multi-sistemico, quindi come "res fenomenica" non solo banalmente complessa, bensì tale da presentare una complessità organizzata di strutture e logiche di funzionamento: una complessità di "oggetti" che paiono "obiettivamente" diversi, meglio che pare ragionevole dire, concepire come "diversi" nel senso di richiedere strumenti di indagine specifici e logiche di comprensione sufficientemente differenziate.
  2. Questa multisistemicità (che si manifesta e legittima in forza degli attuali percorsi disciplinari) presenta a sua volta una valenza strutturalmente dinamica. E questo non solo nel senso, non banale, di sottolineare il carattere non giustappositivo, non architettonico delle relazioni tra i diversi sistemi: essi non "si trovano" una accanto all’altro, soltanto; né , tantomeno, uno sopra l’altro (secondo ordini di importanza esplicativa che rinviano a nessi causali semplici e lineari). Ben più profondamente, parliamo di una dinamicità che sembra strutturale da un lato, perché implica stabili rapporti di interazione tra i sistemi; dall’altro lato perché tale stabilità di interazione fa dell’interazione intersistemica un modus operandi della totalità multisistemica, dell’ente e quindi rende impossibile, in via di principio, che la fenomomenologia di un sistema sia visibile-comprensibile al netto delle sue interazione con gli altri sistemi cui è collegato; dall’altro lato ancora, perché la complicazione del sistema multifenomenico uomo è data non solo dalla complessificazione dei/nei sistemici (nella loro pluralità intersistemica) ma anche dalla loro reciproca implicazione .
  3. Proprio questa dinamicità che è interattiva e per implicazione è il tratto strategico del modello tracciato che lo rende strutturalmente antiriduzionistico, bloccando la logica dell’ultima analisi. Si dà ultima analisi quando vi è un ultimo piano, o livello, o res oggettuale di riferimento, ma non quando l’insieme e i suoi sistemi sono organizzati per implicazione e stabile interazione.
  4. Ma è l’ultimo qualificativo del nostro modello: la sua discorsività quello che ci pare più funzionale tanto ad una epistemologia della complessità (capace di evitare i lidi o miti di un olismo metafisico e letterario), quanto ad una nuova pratica dell’interdisciplinarietà.

 

Presentare l’uomo come ente discorsivo (a causa della dinamicità strutturale delle relazioni intersistemiche che ne esprimono la fenomenologia: biologia, psicologica, socio-culturale) implica infatti:

  • che qualsiasi discorso sull’uomo, qualsiasi pretese di dire sull’uomo qualcosa di sensato non possa che essere una pretesa corale, nella quale cioè siano implicate tutte le discipline che su tale "oggetto-del-discorso" abbiano da dire (o ridire);

 

  • che qualsiasi discorso mono-disciplinare sull’uomo si presenti consaputo tanto della sua strategica inadeguatezza oggettuale (se si vuole della sua strutturale parzialità in rapporto alla totalità fenomenica che è l’uomo), ma anche della parzialità che concerne il proprio sistema o micro o sottosistema di studio: ciò implica che il "corpo" dell’uomo non è un puro problema medico-biologico; che la sofferenza psichica non è un puro fenomeno…psichico, essendo in essa implicate anche questioni antropologiche, culturali e neurobiologiche; o che Medjugorie sia un problema religioso, come del resto non è lo stesso problema del se credere, dell’essere certi e del dimostrare l’esistenza di (un) dio;
  • che qualsiasi discorso causale, e quindi qualsiasi dire esplicativo di fenomeni del/nell’umano possa di certo rifarsi ad una preminenza causale; possa cioè riconnettere la fenomenologia in esame ad un sistema in particolare (al sistema bio-somatico invece che a quello intrapsichico-inconscio o a quello socio-ambientale ecc), e però sia consapevole di come tale imputazione per un verso sia sempre co-fattoriale e quindi parziale: in un multisitema nulla è più (no longer) fondamentale ma molte cose, volta a volta possono possedere una valenza causativa preminente, strategica, decisiva: mai esclusiva, non potendo tale preminenza imputativa dare ragione dell'’ntreccio delle implicazioni del sistema in esame con gli altri – in esame presso altre discipline e altri discorsi. Si noti, questa virtualità policausale di tutti i sistemi nulla ha a che vedere con l’indistinta nera notte in cui tutte le vacche sono nere. Questo, caso mai, è l’inevitabile esito di una lettura ingenuamente post-modernista della complessità. Qui, infatti, si introduce il criterio dell’imputazione causale come imputazione di preminenza: e il concetto di preminenza ci pare, per le condizioni d’uso sopra esplicitate, dotato di sufficienti garanzie antidogmatiche e neo-positiviste (quelle del riduzionismo sofististica dei Churchland, ad esempio) e anti-anarchiche, e quindi tali da evitare quel relativismo ipertollerante perché strutturalmente indifferente e scettico e disperato (o disperatamente saggio?)

 

Del resto, che una imputazione causale in chiave di preminenza sistemica non sia affatto riducibile ad una forma di relativismo causativo è dimostrabile dal fatto che siffatta imputazione deve essere sì consapevole della sua parzialità, del suo non poter aspirare ad alcuna ultima analisi, e quindi a non essere più una spiegazione conclusiva (cosa dopo Kant, peraltro, risibile) ma deve altresì dimostrare empiricamente la specificità quantitativa e qualitativa dell’interazione tra sistema di riferimento e fenomeno da spiegarsi. Deve quindi esporsi al rischio della prova e, passatolo vittoriosamente, reclamarne la provvisoria coppa.

  • infine, che qualsiasi rigoroso discorso disciplinare sull’uomo si troverà, prima o poi (e tanto più è stato un discorso accorto tanto più questa esperienza accadrà prima) a fare l’esperienza del tentennare, del parlare balbettante, dell’afasia, del silenzio. Fuor di metafora, si troverà a scontrarsi con l’evidenza empirica della limitatezza della propria prospettiva disciplinare rispetto ai propri oggetti di studio: a quegli oggetti di studio assunti, a prima vista, come "ovviamente", ingenuamente propri e ora, finalmente, riconosciuti come non-solo-propri, ma anche di altri. Proprio questa esperienza afasica, questo toccare con mano la limitatezza del proprio sguardo è la condizioni esistenziale e metodologica più efficace per una proficua, reale non diplomatica interdisciplinarietà. Proprio l’esperienza del mio specialistico non sapere è ciò che mi spinge, questa volta seriamente, ad interrogare la disciplina a me contigua (in quell’ambito problematico), così entrando nell’ottica, nello sguardo altrui…scoprendo che ciò che quello sguardo disciplinare diverso vede nel "mio" oggetto di studio non poteva essere visto dal mio precedente punto di vista. In simile constesto la collaborazione interspecialistica diviene una necessità metodologica concreta. Essa non nasce da un asserto ideologico, da una astratta teoria o principio della complessità, ma dal coerente approfondimento disciplinare. Così coerente da aprirsi strategicamente alla logica delle implicazioni interdisciplinari così come la pratica concretamente impone.

 

B. Implicazioni e problemi degli sviluppi inter-disciplinari del modello.

 

Per quanto in largo misura intuibili – alla luce delle considerazioni svolte in A. – ci pare opportuno evidenziare brevemente il senso dello sviluppo disciplinare del modello sopra esposto, in quanto, come rammentato in sede introduttiva, originariamente finalizzato ad un uso clinico-epistemico, ruotante attorno all’assunzione, quale "oggetto di indagine" dell’uomo nella sua dimensione preminentemente individuale. (La fenomenica dell’umano cui il modello rinviava e dai cui, per via ricompositiva, derivava era cioè una fenomenica del soggetto singolo, del soggetto in quanto singolo individuo).

 

Dal momento che il modello si snoda in una articolazione fenomenico-sistemica sulla base di una sua derivazione disciplinare – e cioè assumendo i vari punti di vista disciplinari; non sembrano esserci particolari difficoltà a leggere i sistemi fenomenici come sintesi di prospettive disciplinari dotate di forte ed empirica contiguità nonché di necessatati livelli di implicanza e sovrapposizione metodologico-oggettuale.

 

Il grafico, in Allegato 2 potrebbe già visualizzare la struttura concettuale di quanto qui esposto.

 

Va da sé che la traduzione disciplinarizzata del modello pone in evidenza l’assenza di un macro e super o meta-modello, adeguato all’idea di Totalità, o di Insieme dinamico.

 

Per quanto intrecciate, complicate (plicum) e complessificate (plexum), per quanto dinamicamente interattive e interagenti le prospettive disciplinari [biologiche(microbiologia, biochimica, biogenetica, biologia evoluzionistica, antropologia biologia ecc.) – psicologiche (dinamiche e non; psico-fisiologiche, etologiche, psico-sociali, psico-evolutive ecc.) – socio-cultural-antropologiche (micro-macrosociologia, sociologia della conoscenza, della cultura, della religione, antropologia materiale e simbolica ecc.)] non "creano" un effetto finale unitario, compiutamente "ecologico" – non si giunge, insomma, ad alcuna Idea in sé e per sé,pur mantenendo criticamente, dell’hegelismo, l’istanza del "Vero come Intero".

 

Il fatto, meglio, l’opinione nostra è che, allo stato attuale delle conoscenze empiriche disponibile, alla luce dell’attuale dibattito epistemologico, sulla base del persistere "obiettivo" di differenze non retoriche e non meramente analitico-linguistiche, ma conceptually founded, tra campo dell’indagare fisico-cosale, della discretezza riproducibile e campo dell’indagare "meta-cosale" (specie poi se colto nella sua espressione simbolica: campo del senso, dei significati ecc.) non ci pare né epistemicamente né metodologicamente né fattualmente proponibile una idea di ultima sintesi, di un modello adeguato alla riproduzione concettuale della totalità dell’uomo. Siffatto modello rischierebbe di riprodurre o antinomie metafisiche dopo Kant realmente inconsistenti o di promuovere, involontariamente e però surrettiziamente, un modello ontologico di totalità (non importa se idealisticamente o "materialisticamente" connotato) che poi agirebbe quale rovescio speculare dell'ultima analisi. Così producendo il paradosso di un riduzionismo (squisitamente metafisico) dell’ultima sintesi.

 

In breve, aforistica espressione: possiamo, per ora, ragionevolmente pensare all’uomo come ad una totalità di totalità sistemiche. Ma dal momento che ben poco sappiamo, ancora, di come quelle totalità si tengano, si sostengano, producendo effetti finali "globali", pare prematuro qualsiasi pronunciamento sul tutto che non sia rigorosamente metodologico: una indicazione –a e non un dire (positivo) di/sul tutto.

 

Probabile è, del resto, che di quella totalità mai si dirà bene a abbastanza.

 

Vale per la "totalità sistemica dell’uomo" (come singolo e species) quello che Platone asseriva della natura dell’anima: "Solo gli dei sanno dire cos’è. Ma immagina… questa similitudine…".

 

Speriamo che la similitudine, il "facciamo finta che" del modello consenta un avvicinamento, un approccio non molesto all’uomo così come sembra apparire allo sguardo panoramico dell’interdisciplinarietà (tenendo conto però, che, dopo la "Morte di Dio", abbiamo cancellato ogni orizzonte…senza per questo accedere al nulla!).

 

  1. Implicazioni formative del modello e ipotesi didattiche.

 

Se è ormai notoriamente vero che non si dà pressochè mai lettura di fatti, e soprattutto di fatti umani, che sia neutra, nella quale cioè il soggetto non sia in qualche modo implicato, è allora altrettanto vero che il proporre un modello come quello sopra schematicamente abbozzato è tutt’uno con il proporre un modo di essere coinvolti nell’oggetto uomo. Unitamente ad un modo di commentarlo alla luce delle "nostre" esperienze, della nostra cultura – la cultura essendo la forma più sofistica e pratica con cui l’uomo commenta se stesso e il (suo) mondo.

Ora un siffatto modello, pare espressione di istanze culturali, a chiaro impatto formativo (perché tale da suggerire un orientamento – letteralmente un modo di prendere direzioni – nel contesto esistenziale della condizione umana e nel contesto cognitivo dei processi di una sua attendibile, efficace e sensata comprensione.

Molto schematicamente, queste opzioni formative (culturali e cognitive stricto senso, "scientifiche") possono riassumersi così:

  • Centralità dell’atteggiamento critico come strategia di relazione al mondo (universo delle cose, delle persone e dei significati). Critico è l’atteggiamento che rifiutando l’ovvietà delle cose, fa delle cose res problematiche, bisognose di giustificazione. Per queste ragioni, l’atteggiamento critico o interrogante è anche lo stile cognitivo che sottende e unifica l’uomo in quanto essere razionale (e questo nell’esatta misura in cui è accettabile intendere per razionale qualsiasi proposizione o relazione che possiede una giustificazione - stricto sensu intesa -intersoggettiva);  
  • Preminenza metodologica della contestualizzazione: intendo per contestualizzazione la capacità di indurre, descrivere e circoscrivere in ambiti disciplinari o fattuali le informazioni e le conoscenze. Ciò vuol dire che il sapere qualcosa è essenzialmente è sapere dei limiti e delle condizioni di validità di quel sapere. Ma ciò rinvia, a sua volta, a riconoscere che il sapere non esaurisce nemmeno mai compiutamente il suo oggetto (perché l’oggetto è sempre parte di un contesto più vasto).

Il principio della contestualizzazione rappresenterebbe qui un modo empiricamente prudente di gestire la tematica o prospettiva (ineludibile) della disciplinarietà…nel contesto della multisistematicità.

  • Recupero della dimensione affettiva nella forma ( e nei limiti) della dialogicità. Il dialogo, a partire dalla sua matrice socratica sino al critical thinking contemporaneo, diviene in questo modello esigenza del percorso conoscitivo e ripreso nella sua vettorialità motivazionale (l’interrogazione che apre all’atteggiamento critico è sempre espressione di un interesse: interrogare l’oggetto non è un mero vederlo, bensì un andarlo a vedere secondo un se, un ma, un quando e allora. Noi siamo coinvolti dalle domande che toccano interessi. Il riconoscere i propri interessi è l’inizio dell’interrogarli e rendere interessante il processo dell’interrogare!)

 

 

 

 

 

 

 

Sito del dott. Ivano Lanzini

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