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Psicoanalisi Singolare-Plurale

PSICOANALISI

 

 

Cosa vuol dire essere psicoanalisti, oggi?

Quale rapporto intrattenere con in lascito freudiano, dopo Freud?

Esiste uno specifico irrinunciabile del punto vista psicoanalitico?

E se sì, dove si situa nel contesto dei differenti modelli di psicoanalisi operanti?

E, di più, nello spazio sempre più vasto e contraddittorio dei diversi modelli di mente operanti nella psicologia contemporanea?

Pensiamo siano questi quesiti essenziali per chi, come l'Autore del sito, ritiene ancora, cocciutamente?

insuperata la lezione metodologica e il senso interrogativo e critico della psicoanalisi come atteggiamento comunicativo-relazionale e, più ancora, umano-esistenziale di fronte all'enigma della sofferenza umana che si declina anche drammaticamente nel dolore mentale, nella paralisi emotiva, nello smarrimento esistenziale, nell'agito delle perversione e nello splitting psicotico.

 

 

CONSIDERAZIONI CRITICHE SULL'INTERPRETAZIONE FREUDIANA

DELL'AGGRESSIVITA'

di

  IVANO LANZINI e AGOSTINO MASSONE  

 

 

 

È, quello che segue, un saggio critico sulle risposte date da ARoN e da MUSATTI agli interrogativi sulle origini dell' aggressività umana riproposti recentemente sulla stampa nel periodo del Convegno Internazionale di St. Vincent sul tema " Psicologia dell'aggressività e della violenza " ( 14-15 ottobre 1980).

Sono così messi in rilievo valore e limiti dell'interpretazione rigidamente freudiana dell'aggressività nell'uomo, anzitutto la tesi della naturale ( strutturale, e quindi innata) aggressività umana, per proporre l'ipotesi che la violenza e la sua versione in " terrorismo " non sia un fenomeno da spiegarsi in un'ottica soltanto psicologica. Si tratta di un fenomeno "sociale" che richiede, in quanto tratto comportamentale ed emotivo-affettivo in stretta relazione, reattiva o di adeguamento, ad una' realtà o sistema sociale in tutti i suoi livelli, una profonda trasformazione culturale, sociale, etico-religiosa della società ed un conseguente impegno civile e politico,

1.

Agli inizi degli anni Trenta, le nazioni rette da governi democratici erano di nuovo con il fiato sospeso per l'avvento di regimi dittatoriali inneggianti ad ideali di supremazia di razza. Le ideologie fasciste in Italia e in Germania rendevano sempre più precaria la pacifica convivenza tra i popoli e la minaccia di una nuova, catastrofica guerra, si profilava all'orizzonte.

La gente comune e gli uomini di cultura si chiesero, con maggior insistenza del solito, perché il mondo "civile" dovesse ricorrere, con periodica ineluttabilità, alla guerra. La Società delle Nazioni si fece interprete di questi sentimenti e di questi interrogativi e sollecitò una risposta ai più prestigiosi esponenti della cultura di quell'epoca. I primi uomini di scienza ad essere interpellati furono Einstein e Freud. Tra questi due insigni studiosi intercorse, così, uno scambio epistolare che fu in seguito pubblicato nel volume " Perche la guerra? ". La situazione internazionale agli inizi degli anni ottanta, non è certo più distesa di quella esistente 50 anni fa, in particolare l'aggressività e la violenza non mostrano segni di assopimento o di diminuzione. Per contro esse si manifestano in termini diversi ma non meno crudi di allora. Le domande sul significato della guerra e quindi sulle cause della violenza, poste 50 anni fa ai due illustri scienziati, sono ancora attuali e il nostro più diffuso quotidiano, " Il Corriere della Sera ", ha ritenuto opportuno riproporre gli stessi interrogativi sull'origine dell'aggressività umana, che si esprime attualmente anche nel terrorismo, a un politologo famoso, il francese Aron, e a un discepolo di Freud non meno famoso, l'italiano Musatti. Le loro risposte comparvero sul " Corriere " del 16-10-1980. Tali risposte, ed in particolare quella di Musatti, furono oggetto q i discussione nel meeting settimanale che tengo con i miei .Allievi in analisi didattica. Ne emersero considerazioni interessanti sui valori e sui limiti dell'interpretazione rigidamente freudiana dell'aggressività umana, considerazioni che sono state in parte espresse da uno dei compartecipanti. Oltre all'autore, Ivano Lanzini. del saggio critico che presento, i partècipanti al Gruppo erano le Dott.sse Dal Magro F" Muscarà E, e Sanesi P.; i Dott.ri Buzzi E. e Invernizzi E. e la Sig.na Vismara p ., laureanda in Medicina.Poichè " Anime e Corpi " ha già trattato il tema della violenza, ritengo che la conoscenza di quanto scritto dal Dott. Lanzini sia utile ai lettori, anche come complemento al mio articolo sull'aggressività, comparso sul n. 75, del gennaio-febbraio 1978, della Rivista,

2.

L'analisi di C. Musatti sulla violenza e il terrorismo è così chiara e lineare da apparire veritiera. In realtà non mi pare che sia tale; che sia, cioè, una analisi scientifica, fondata su ipotesi confermate da fatti e constatazioni empiriche. Per motivare questo convincimento, mi è necessaria una rapida ricostruzione del suo discorso. Nel tentativo di spiegare quella particolare manifestazione di violenza che è il moderno terrorismo, Musatti muove dal presupposto freudiano dell'esistenza "nella persona umana; di una componente aggressiva": la" pulsione di morte " che, per il suo carattere costitutivo e strutturante lo psichismo umano (unitamente all'altra, originaria e opposta pulsione: quella, dell'Eros, con la quale entra In rapporto dinamico e conflittuale ), è sostanzialmente incoercibile ed insopprimibile o, come dice Freud , " non neutralizzabile". Per questo suo fondamento pulsionale aggressivo, l'uomo, dunque, è naturalmente violento (omicida, distruttore ecc. ). Ne consegue -secondo Musatti -che il problema della violenza, ovvero del " perché l'aggressività umana spinga gli uomini a sopprimersi a vicenda " cessa di essere tale, in quanto, appunto, quella aggressività si svela come tratto tipico dell'uomo e della sua storia: individuale e collettiva.Il problema vero, allora, è unaltro e concerne quello " strano " fenomeno per cui, nonostante tale pulsionalità mortifera, gli uomini " non sempre... si uccidono fra loro " ed anzi giungono a condannare, proibire e, .. reprimere " lo spirito della violenza " che è in loro. - Ancora una volta, Musatti tenta una risposta sulla base della dottrina freudiana. La causa di tale " non-violenza ", infatti, è da lui individuata nella comparsa, nella coscienza umana, di " un imperativo che dice: non ammazzare ". Esso origina dal " comando genitoriale ", impartito a ciascuno " fin dall'infanzia " e che, sulla base dell'altra primitiva pulsione erotico-amorosa, " si rafforza e interiorizza, aiutato certamente come dice Freud dai processi di identificazione col prossimo ". Comando parentale, eros, identificazione con l'altro ( ovvero, formazione del concetto stesso di "prossimo") sono dunque gli elementi che, per la psicoanalisi, strutturano quei particolari meccanismi di difesa (e autodifesa) dalla pulsione di morte, che si condensano nella suddetta ingiunzione etica (o religiosa). Tali meccanismi, tuttavia, non riescono a reprimere totalmente l'aggressività pulsionale. Essi possono soltanto controllarla, diluirla nelle forme e nel tempo. Ma mai e poi mai eliminarla. Anzi, vi sono situazioni in cui quella aggressività giunge a manifestarsi proprio per il tramite di quegli stessi meccanismi. Esempi probanti di ciò sono, secondo Musatti, tanto il caso della guerra quanto quello del fenomeno terroristico. Nel fatto bellico, infatti, accade che l'imperativo del "non uccidere" pur conservando la sua natura di imperativo etico e quindi i suoi connotati di assolutezza e doverosità muta radicalmente di contenuto e segno, fino ad assumerne di diametralmente opposti : così che il "non uccidere" si " capovolge", ora, in "uccidi!". Tale mutamento si verifica è questa la specificità del fenomeno bellico in quanto l'individuo obbedisce, adesso, ad un nuovo comando di una nuova figura sociale, che egli riconosce ( e vive) come autorevole e fonte del valore: lo Stato.

Infatti, è in nome dello Stato, della sua difesa, delle sue necessità e in nome degli " assoluti " cui esso "fa appello" (la razza, la fede, la patria ecc.) che l'individuo si trasforma come dice Musatti "da persona che non avrebbe torto un capello ad alcuno" in un'altra persona che, "in piena serenità di spirito" e aggiungerei con tutto l'impegno derivante dalla consapevolezza di attuare un contenuto etico, pratica " il tiro a segno su persone vere ". Accade così, che proprio quell'imperativo etico che doveva controllare la pulsione di morte diviene lo strumento specifico di una delle sue più feroci manifestazioni. L'aggressività che era stata ricacciata negli oscuri anditi dell'" Es ", fa ora il suo ingresso trionfale, passando per la porta maestra del " Super Io ". Simile paradosso si verifica anche nel caso del terrorismo, ma, secondo Musatti, con una diversa modalità. Il terrorista, infatti, giunge all'aggressività omicida non per il tramite di " avalli esterni " ovvero, mediante una proiezione istituzionalizzata del comando parentale bensì, all'opposto, in nome di un nuovo contenuto dell'imperativo etico, di un contenuto autonomamente elaborato e" stravolto, con conseguenze tragiche ". In altri termini, se il soldato uccide sulla base di un ordine categorico e di un contenuto etico che provengono dall'esterno, secondo moduli che ricalcano quelli del primitivo comando genitoriale, il terrorista rileva Musatti al contrario, uccide contro tutti quegli ideali, quei valori, quei contenuti dell'azione morale. che si oppongono o semplicemente non coincidono con il suo ideale, con i suoi valori ecc.Anche in questo caso, pertanto, l'imperativo etico appare come la forma di espressione ( e razionalizzazione) della pulsione di morte, per il tramite di contenuti così ipertrofizzati e stravolti ( dal Super Io) da richiedere, per la loro realizzazione, tanto lo sterminio di vite umane (di quelle, in particolare, che sono ritenute il simbolo di una realtà, politico-istituzionale e socio-economica, che nega i " valori morali " del terrorista) quanto in un accecamento semi delirante e" masochistico " l'autodistruzione della vita stessa del terrorista. Risulta provata, da questi casi, la potenza della pulsione di morte, la fragilità dei meccanismi di difesa e la sostanziale inevitabilità della fenomenologia aggressivo-omicida nella storia dell'uomo. Questa, in sintesi, l'analisi di Cesare Musatti. Vediamo, ora, quei suoi punti che ci sembrano lungi dall'essere evidenti ed empiricamente accertati.

*                *                *

Anzitutto, la tesi della naturale aggressività umana, ovvero della strutturale inerenza di una pulsione di morte nella persona umana, quindi, della sua " innatezza ". Orbene, simile tesi è sostenibile solo a patto di dimostrare che l'aggressività umana origina dall'uomo in quanto individuo, cioè indipendentemente dalle forme storiche del suo rapportarsi alla natura e all'uomo, nella società. Giacche, se si afferma: a) che la pulsione di morte costituisce (con l'eros) lo psichismo umano, e b) che è ab initio della sua evoluzione, tanto da confondersi, quasi, col concetto di " istinto " ( 1 ), allora essa deve trovare spiegazione nella realtà immediata dell'uomo, nella sua naturalità neurofisiologica e biogenetica, al di fuori di qualsiasi mediazione sociale.

Proprio questo, però, è indimostrato e, a mio avviso, del tutto erroneo.Infatti, tutto ciò che nell'uomo è predicabile come " innato " e originario (o congenito), attiene esclusivamente e direttamente a quegli " istinti-bisogni " del mangiare, bere, dormire, riprodursi ecc. che, appunto, derivano dalla sua semplice struttura " animale ". Oltre ad essi, non è possibile derivare, dalla elementare struttura dell'individuo umano, alcun altro tipo di istinti o pulsioni. Questo perche tutte le qualità psichiche appaiono come risultati del processo di relazione dell'uomo con l'ambiente sociale-naturale e quindi possiedono i tratti della relatività, della dinamicità, della transitorietà e della inomologabilità (in un concetto definitivo). Ora, è vero che la dottrina psicoanalitica afferma e Musatti, con gli esempi della guerra e del terrorismo, lo ribadisce che la pulsione di morte si esprime in forme diverse a seconda delle circostanze ambientali e storiche. Tuttavia, non prova come tale pulsione possa esistere, indipendentemente, prima di esse: in breve, non dimostra il carattere pulsionale dell'aggressività, la sua " naturalità ". Il che, appunto, è ciò che va provato e non " dato per scontato " come dice, con ingenuo paternalismo, Musatti. Dal punto di vista della ricerca empirica e scientifico-sperimentale, sembra vieppiù comprovata sulla base, anche, delle più recenti indagini antropologiche, etnologiche e paleontologiche (2) l'ipotesi che, fatti salvi quei bisogni biogenetici cui si è accennato, l'insieme delle espressioni e dei connotati psicologici dell'uomo (comportamento, emotività, affettività) origina dal modo specifico in cui, storicamente, egli si rapporta all'ambiente naturale, sulla base delle relazioni sociali e produttive che instaura con gli altri uomini. Per cui: l'habitat (il territorio, la sua estensione, il suo clima, la sua altitudine ecc.), il modo di sostentamento e di produzione ( dall'agricoltura all'industria, dalla caccia alla pastorizia e alla moderna ricerca tecnologica ecc.), la divisione del lavoro (e quella, conseguente, delle classi) sembrano gli elementi che spiegano unitamente all'analisi del vissuto psichico infantile (ma non necessariamente familiare! ) il manifestarsi di legami solidaristici, comunitari o di istanze aggressive, distruttive e asociali. Alla luce di ciò, mi pare che l'aggressività si presenti non tanto come " pulsione ", quanto come tratto comportamentale ed emotivo-affettivo in stretta relazione (reattiva odi adeguamento) (3) ad una realtà o sistema sociale, in tutti i suoi livelli: culturale, religioso, sociale, economico-produttivo ecc..

Quindi, come una variabile ( dinamica, plastica e polimorfa) dello psichismo umano. Da ciò consegue che, lungi dall'essere risolto ( o risolvibile in termini di descrizione prescrittiva) ( 4 ), il problema del perché gli uomini si aggrediscono resta aperto e, aggiungerei, potenzialmente risolvibile attraverso I'individuazione-rimozione delle sue cause sociali ( 5 ). Perche ciò avvenga, è, però, necessario uscire dagli schemi dogmatici ( 6) dello psicanalismo, che non si prestano agilmente ad una verifica scientifico-sperimentale e che, anzi, mettono capo tanto ad esiti fatalistici ( del resto, tipici di qualsiasi posizione culturale che si fondi su un concetto di " natura umana immutabile " ) (7), quanto ad una sorprendente povertà di indicazioni operative. Come, a ben vedere, dimostra la stessa conclusione dell'analisi di Cesare Musatti. Partito con lo stabilire I'inevitabilità del manifestarsi della pulsione di morte, egli non può, infatti, rispondere adeguatamente al " che fare? " contro il terrorismo; giacché, se l'aggressività è un che di naturale, essa non può essere realmente rimossa. A meno di ricorrere all'aiuto di un dio, ma quest'ultimo non può più intervenire... perché dissolto nel concetto di Super-Io (8). Se, invece, si muove dall'ipotesi del carattere eteronomo dell'eziologia aggressiva (9) nonché della sua pluralità di significato, di direzione e di motivazione ( 10), il problema del terrorismo deve essere affrontato alla luce di altri quesiti, concernenti non tanto e non solo il perché della " fragilità " e" impazzimento " del super-io " morale " del terrorista, quanto 1) perché il terrorismo assume una dimensione sociale; 2) perché si manifesta proprio in quest'ultimo decennio in Europa; 3) perché assume forme differenziate e" originali " nei vari paesi; 4 ) perché ha avuto e, in parte, ancora ha un'area di consenso, anche intellettuale e culturale; oppure, 5) se esistono nella società: nel suo sistema economico, nei suoi meccanismi istituzionali, nella sua classe di governo, degli elementi che, almeno di fatto, spingono all'insorgenza del terrorismo, o 6) se esistono forze (economiche, politiche; interne, internazionali) che hanno interesse al mantenersi e svilupparsi del terrorismo, e via dicendo. Sono questi i punti che Musatti salta metodicamente e che, nei casi in cui li nomina, lo costringono ad uscire dalla sua ipotesi pulsionale e a contraddirsi.

Che senso ha, infatti, per chi ritiene " naturale " la violenza, auspicare che " tutto muti ", al fine di eliminare il terrorismo ?

Non significa, implicitamente, ammettere che tale fenomeno può essere abolito sulla base di una profonda trasformazione socioeconomica e politica del Paese che, mi pare, non ha molto a che fare con il lettino dello psicanalista, ma molto di più con un impegno civile e democratico ?

Ma, appunto, perché " tutto muti " è necessario abbandonare la tesi " metafisica " di Musatti ( e di certo freudismo) a favore dell'ipotesi cui accennavo prima e di un suo corollario fondamentale: quello per cui un fenomeno sociale non può spiegarsi in un'ottica soltanto psicologica, ma richiede l'intervento di strumentazioni analitiche adeguate alla complessità e ricchezza dell'oggetto di indagine (11). Il rischio che si corre, altrimenti, è quello di vedere gli alberi (fuor di metafora, il singolo terrorista) e di smarrire la foresta (il fenomeno del terrorismo ed il suo inserirsi nel sistema sociale ).

 

NOTE:

(1) Non a caso Charres Brenner è costretto a fare" salti mortali" per spiegare la distinzione tra " istinto" e" pulsione " nell'uomo, mostrandosi un po' imbarazzato nel rilevare come tali termini vengano usati in senso sinonimico in molta arte " della letteratura psicoanalitica ", anche di alto livello. Ciò si piega col fatto, appunto, che se è indubbiamente vero che la pulsione umana si differenzia dall'istinto animale per la sua plasticità (dovuta all'ampio spettro direzionale della risposta umana alle provocazioni ambientali), è altresì vero che, o del l'istinto, la pulsione mantiene il requisito essenziale: l'innatezza. Al punto che lo stesso capitolo del" Breve corso di psicoanalisi " (Firenze, 1967, pago 25 e segg.) di C. Brenner si intitola "le pulsioni istintuali"

(2) Su ciò, cfr. l'ampia documentazione offerta da Erich Fromm nei capp. 2, 3, 4 e 6 della 1. parte della sua " Anatomia della distruttività umana ", Milano, 1973, alle pagine (per la 3. ed., 1975) 37-40, 42-56 e 124-232.

(3) Giacche ii comportamento aggressivo può essere tanto una forma di reazione ad un ambiente sociale negativo (o vissuto come tale) quanto lo specifico modo di sopravvivenza del singolo in un ambiente che richiede ed impone, per la sussistenza fisica e emotiva, un atteggiamento aggressivo. Mi chiedo, infatti, se l'aggressività insita in molte delle relazioni maschili (altamente competitive) non generi (anche) dal messaggio culturale che vuole il maschio aggressivo, pena la sua emarginazione. Su questo problema della reazione all'ambiente del comportamento umano, si veda il famoso Sesso e temperamento di M. MEAD, Milano, 1967, specie il 2" cap. e le conclusioni.

( 4) Mi pare, infatti, che Musatti commetta un classico errore logico(-metodico): rilevando il continuo manifestarsi della aggressività nella storia dell'uomo, non si limita al livello della constatazione ma passa a quello della prescrizione, così che la ripetizione del fatto diviene elemento costitutivo della sua " legalità ", ed il" così è" si muta in " così deve essere" o "non può che essere". In tal modo, l'analisi del fenomeno non mette capo ad una spiegazione (scientifica) ma ad una tautologia che, da un lato, non possiede alcun valore gnoseologico, dall'altro sancisce l'eternità del fenomeno osservato. Per una critica di questo schema logico vizioso, si confrontino i capp. 2" e 4" della Logica come scienza storica di GALVANO DELLA VOLPE, Roma, 1969.

(5) Non si vuole, con questo, ipotizzare una società perfetta e conflittuale, bensì una organizzazione sociale tale, appunto, da vedere rimosse le cause sociali dell'aggressività negativa o distruttiva.

(6) Il dogmatismo di molti concetti psicoanalitici non risiede, a mio avviso, soltanto nel loro essere dati, con troppa disinvoltura, per " scontati ", quanto nella loro formulazione che non sempre. è funzionale alla. loro. verifica, o, popperianamente, alla loro circostanziata falsificazione. Al proposito, mi paiono ancora tutte da meditare e riscoprire le osservazioni che E. NAGEL nel suo saggio Problemi metodologici della teoria psicoanalitica (ora in Psicoanalisi e metodo scientifico, Torino, 1967) rivolge a fondamentali postulati della teoria freudiana.

(7) Ogni definizione della " natura umana" in termini assoluti e definitivi porta con sé, infatti, l'inevitabile conseguenza di assumere i limiti, i difetti, le incongruenze dell'azione storica dell'uomo come fatti inevitabili, eterni, immutabili e mette capo ad una concezione (ad una filosofia) della storia intesa come realizzazione/negazione di qualità, doti, attributi naturali, presociali e preistorici dell'uomo. Sull'inattendibilità di simili concezioni ci pare superfluo esprimerci, anche se esse, purtroppo, sopravvivono in tanta parte di ideologie politiche e sociali (vd. ad es. il liberalismo, l'umanesimo filantropico), "scientifiche" (vd. la " psicobiologia ", l'etologia, la stessa psicoanalisi) e religiose (vd. il rotestantesimo luterano, non che nuclei sostanziali o spezzoni non indifferenti di fideismo acritico).

(8) E, infatti, il pensiero cristiano, scorgendo nella natura umana ( in conseguenza della " colpa originaria" ) la causa di quel male sommo che è il " peccato ", ne scorge la soluzione (liberazione) non nell'uomo (non solo e non tanto nelle sue "opere" ) ma nella fede in Dio che giustifica, ossia nella grazia che proviene dal radicalmente" Altro-dall'uomo ", Ma ciò, appunto, non rientra in un discorso scientifico-sperimentale, bensì di fede.

(9) Dicendo eteronomo non vogliamo intendere indipendente dall'uomo, ma esterno ad esso in ordine all'origine e non alla dinamica. È ovvio, infatti, che l'aggressività si esprime sulla base della soggettiva interpretazione dell'ambiente umano sociale e naturale.

(10) È Su questa ipotesi che si muove tutta la ricerca di Erich Fromm. Si veda la già citata Anatomia dell'aggressività umana e, per quanto concerne la sua critica alla teoria freudiana degli istinti pulsionali, le pagg. 144-183 di Grandezza e limiti del pensiero di Freud, Milano, 1979.

(11) Cosa che si verifica solo a livello interdisciplinare. Come dimostra la feconda esperienza di Piaget. Si veda, su ciò, quella ricostruzione del suo iter teorico-culturale tracciata in Saggezza e illusioni della filosofia, Torino, 1972.

 

PRODUTTIVITA' GNOSEOLOGICO-TERAPEUTICA DELLA PSICOANALISI

 

CONSIDERAZIONI SULLA REALE PRODUTTIVITA' GNOSEOLOGICO-TERAPEUTICA DELLA PSICOANALISI

1. il processo terapeutico psicoanalitico e i suoi utenti.

2.    Osservazioni sui risultati terapeutici del trattamento psicoanalitico

3. La "guarigione psicoanalitica": la persuasione paradossale

4.     Il paziente sofisticato ( e autosuggestionato) della psicoanalisi

Il presente lavoro fa parte di una nostra ricerca più ampia ed articolata, che è già stata in parte pubblicata (46, 47, 48, 52" 53, 54), tesa ad evidenziare, con taglio critico-problematico, tanto i termini della produttività gnoseologico-terapeutica, quanto i limiti epistemologici ed esplicativi’ della dottrina psicoanalitica.

E’ noto che nello sviluppo delle sue indagini psicodinamiche metapsicologiche, Freud è venuto gradualmente a ridimensionare l’originaria centralità del momento psicoterapeutico della psicoanalisi in base al quale questa ultima non si caratterizzava tanti; come pura "indagine scientifica", bensì come strategia e tecnica di "modificazione" del quadro sintomatologico del paziente (25); e a potenziare il lato più propriamente gnoseologico, ossia la sua capacità di produrre conoscenza "intorno a tutto ciò che maggiormente tocca l’uomo e il suo proprio essere" (29, ma si veda anche 37, 43, 51). Non a caso, infatti, l’esposizione freudiana dei casi clinici andò sempre più incentrandosi sull’analisi dei dati fenomenici che parrebbero provare le ipotesi psicodinamiche, tralasciando progressivamente il controllo dei termini e della qualità del miglioramento complessivo dei pazienti (21, 37, 52, 53). Verso questo privilegiamento teoretico, enfatizzante più il "contenuto di verità" (cfr. 29, 30) che l’efficacia curativa della psicoanalisi, si è mossa e si muove la netta maggioranza della ricerca psicoanalitica post-freudiana che, infatti, tiene a distinguersi e, implicitamente, a contrapporsi all’universo dei vari indirizzi psicoterapeutici in nome di un più adeguato e credibile rigore analitico-esplicativo delle strutture e delle funzioni psichiche più profonde ed inconsce (8, 18, 37, 58, 62). Pur non volendo assolutamente negare la differenza e la relativa autonomia (epistemologica, metodologica e tecnica) che intercorre tra attività conoscitiva e attività trasformativa (o terapeutica stricto sensu) (10, 17), per cui spiegare il come e il perché del disturbo psicologico non è tutt’uno con il suo superamento, riteniamo tuttavia che un esame delle effettive qualità terapeutiche della psicoanalisi sia estremamente utile, in quanto consentirebbe da un Iato di chiarire il problema - anch’esso teorico e gnoseologico- del nesso che legherebbe i suoi modelli teorici e i suoi procedimenti analitici allo "stile" e alle modalità terapeutiche da essi conseguenti; dall’altro, di risolvere, mediante comparazione con altri sistemi terapeutici, il problema più empirico-pratico, della qualità e superiorità del risultati clinici di un approccio psicodinamico (lungo e costoso) rispetto a quelli ottenibili in contesti meno elaborati e più brevi o, come dicono alcuni autori psicoanalisti (61), con un tocco di deprezzamento, "meramente terapeutici".

A tal fine, cercheremo, nel presente paragrafo, di esaminare:

1) come la psicoanalisi ritiene avvenga il processo curativo;

2) quali sono i soggetti o i quadri psicologici cui mediamente la psicoanalisi si rivolge;

3) che tipo di risultati realmente consegue.

1. il processo terapeutico psicoanalitico e i suoi utenti.

Il reale superamento dei disturbi psicologici non può essere ottenuto, secondo la psicoanalisi, agendo direttamente su di essi (ciò potrebbe condurre ad una loro riduzione o scomparsa soltanto temporanea), bensì esige che si tenti di riportare avvalendosi con rigore dei procedimenti esposti e suggeriti da Freud alla consapevolezza del paziente, il complesso intreccio di pensieri, fantasie, desideri e traumi rimossi e però ancora attivi e operanti nei livelli più profondi della sua psiche.

Si tratta, in altri termini, di mettere in atto una strategia capace di dis-velare e dis-occultare quella storia pulsionale (e, massimamente, psico-sessuale ed edipica) che sottenderebbe, sorreggerebbe e spiegherebbe quell’altra: etica, comportamentale e razionale alla quale soltanto è agganciata la consapevolezza del soggetto.

Simile approccio è ovviamente fondato sull’ipotesi che la conoscenza, la comprensione e la ricostruzione interiore di quella "storia" unitamente alla sua riattualizzazione transitoria nella concreta esperienza del rapporto con l’analista (e quindi nelle relative dinamiche emotivo-affettive del transfert) producano nel paziente quella chiarificazione e stabilizzazione psicologica funzionale al superamento della sua specifica sintomatologia.

In estrema sintesi, possiamo pertanto dire che l’approccio psicoanalitico si impernia sulla tesi di una connessione abbastanza stretta tra conoscenza-comprensione del (l’origine del) disturbo psichico e sua remissione, per cui il paziente più è in grado (con l’aiuto non direttivo dell’analista) di realizzare le "vere" ragioni dei suoi stili emotivo-affettivo-comportamentali, più potrà proficuamente ed efficacemente modificarne le componenti psicopatologiche. Sembrerebbe allora che sotto questo aspetto la psicoanalisi non faccia altro che riattivare e ridefinire a fini terapeutici gli antichi principi etico-filosofici e razionalisti del "conosci te stesso" e de "la verità ti farà libero" (Cfr. 31, cap. 1 e 10; e 32). In effetti, non è, a nostro avviso, possibile negare il carattere piuttosto illuministico-razionalistico e, a ben vedere, proprio per questo ingenuo, della suddetta concezione del processo emotivo, tanto essa è schiacciata sul versante gnoseologico e geneticamente ricostruttivo del disagio psichico.

Ciò è abbastanza agevolmente spiegabile riflettendo sull’influsso che la cultura positivistica così fiduciosa nelle capacità razionali dell’uomo ha esercitato su Freud, nonché sulla progressiva intellettualizzazione della ricerca di quest’ultimo.

Va tuttavia doverosamente rilevato che Freud stesso avvertì i limiti e le insufficienze esplicative di questo suo originario modo di intendere il come ed il perché della guarigione gnoseologica. Già nel celebre saggio sulla "Psicoanalisi selvaggia" egli infatti inizia a ridurre pesantemente il ruolo e la significatività terapeutica del puro elemento gnoseologico, introducendo due nuove importanti variabili: il ruolo della resistenza interna del paziente e, conseguentemente, il tempo per superarla. Conviene riportare un passo decisivo di quel testo: "E’ un concetto da lungo tempo superato. ..Quello secondo il quale l’ammalato soffrirebbe per specie di insipienza per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni... egli dovrebbe guarire. Non è tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato (quindi)... il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze" (26, pp.329-30). Di qui, l’indicazione tecnico-terapeutica di modulare, da parte dell’analista, l’emissione di "informazioni", "chiarimenti" e "interpretazioni" alla luce a) sia dei livelli di conoscenza approssimata già raggiunti dal paziente, b) sia dal suo legame affettivo con l’analista (del transfert) in modo tale che l’intensità di quest’ultimo "renda impossibile il rinnovarsi della fuga" e quindi l’irrigidimento delle resistenze.

Per questa via, Freud perviene alla formulazione di una nuova, strategicamente decisiva, componente del processo terapeutico cui conferisce il nome di Durcharbeitung insoddisfacentemente tradotto con "elaborazione terapeutica" o "analitica" (Cfr. 21 e 49).

Con esso, Freud vuole indicare l’insieme delle modalità operative temporali indispensabili al paziente per: a) esperire, comprendere, superare le resistenze interne che lo portano o al rifiuto sistematico e oppositivo delle interpretazione puramente intellettuale e priva di incidenza terapeutica e b) passare conseguentemente ad una comprensione integrale e piena, in quanto fondata sul vissuto interiore, "delle pulsioni rimosse che nutrono la resistenza" (Laplanche-Pontalis 49 e anche 35). Muta pertanto, in quest’ottica, divenendo più elastico ed accorto lo stile relazionale dell’analista rispetto al paziente:

"Si deve lasciare all’ammalato il tempo di immergersi nella resistenza a lui ignota, di rielaborarla, di superarla persistendo, a dispetto di essa, nel suo lavoro analitico... Questa rielaborazione della resistenza può, nella pratica, risolversi in un compito gravoso per l’analizzato ed in una prova di pazienza per il medico. Si tratta però della parte del lavoro che produce i maggiori mutamenti nel paziente e che differenzia il trattamento analitico da tutti i trattamenti di tipo suggestivo" (Ricordare, ripetere e rielaborare, pp. 353 e 361, Cfr. 28). Si tratta ora di vedere quali sono le caratteristiche sociali, culturali, economiche e psicopatologiche dei soggetti che, sottoponendosi al trattamento di anzi descritto, troverebbero reale giovamento.

Un breve e chiaro scritto di Freud del 1904, Psicoterapia (24 ), ci fornisce al riguardo sufficienti indicazioni. I tratti distintivi dell'"ideale" candidato alla psicoterapia psicoanalitica vengono individuati nell’intelligenza, nella cultura o, più generalmente, in un sufficiente grado di istruzione, nell’età adulta (intendendo con tale termine la fascia coperta dai 20-35 anni), nell’educabilità (e quindi nella mancanza di gravi disfunzioni caratteriali) e nella normalità sostanziale di buona parte dei suoi stili affettivi e comportamentali. Per questi procedimenti di scelta dei pazienti, la terapia psicoanalitica si presenta sia empiricamente che teoreticamente come eminentemente selettiva, ovvero come troppo univocamente direzionata a pro’ di alcuni, specifici tipi di "malati". Come ampiamente documentato da Fisher e Greenberg (21 ) nonché da Aronson-Weintraub (1, 2, 3), Bieger (7), Hollingshead-IReadlich (41), mediante analisi statistiche (cfr. ancora, 21, alle pp. 314-321), risulta, almeno per quanto concerne gli U.S.A. (*), c che la netta maggioranza dei pazienti in trattamento psicoanalitico è costituito da professionisti, uomini d’affari, artisti, impiegati e tecnici di alto livello, docenti universitari e, fatto significativo e da tenere in particolare considerazione, da una forte percentuale di medici, psicologi, psichiatri e personale paramedico. Tali dati hanno indotto alcuni autori in particolare Schofield (44), che ha operato una accurata ricerca campionaria sulla clientela psicoanalitica e i già citati Fisher e Greenberg, che si sono avvalsi di una importante base bibliografica (21, pp. 441-531) -a ritenere che i criteri di selezionamento operanti nell’istituzione psicoanalitica possano condensarsi nella ricerca dei soggetti affetti da quella che viene chiamata "sindrome di Yarvis" (*), ossia esprimenti i tratti "patologici" della giovinezza, dell’attraenza, della ricchezza, della corretta capacità comunitiva, dell’intelligenza e del successo (per un approfondimento del tema cfr. 9, 13, 67, 68).

2.    Osservazioni sui risultati terapeutici del trattamento psicoanalitico

Tutte le ricerche, gli esperimenti, le indagini statistiche che si sono prefisse di controllare e certificare la quantità e la qualità dei risultati terapeutici della psicoanalisi, in rapporto sia ai suoi enunciati teorici che ai risultati conseguiti da altri indirizzi terapeutici, si sono imbattute in una significativa serie di ostacoli e difficoltà che rendono problematica una lineare valutazione delle indicazioni e delle ipotesi da esse scaturenti.

A ciò hanno in massima parte contribuito i seguenti fattori:

1) l’enorme diversificazione e inomologabilità dei concreti modi di intendere e praticare le modalità e le tecniche psicoterapeutiche da parte degli stessi psicoanalisti di contro ad un loro più generale (e generico) accordo sui principi teoretici (21, 14, 36 e 67); 2) la presenza e l’incidenza, nel trattamento psicoanalitico, di stili relaiionali,1 comunicazionali e, non raramente, di indicazioni farmacologiche che non hanno riscontro con la teoria classica della psicoanalisi ma che dipendono da valutazioni estremamente personali e soggettive dell’analista stesso (21, pp. 300-4 e Haymann, 38); 3) la difficoltà a trovare

Un criterio sufficientemente credibile ed accettabile per valutare se, come e quando il paziente consegua un miglioramento o una guarigione: è noto, infatti, che la semplice scomparsa del sintomo psichico non prova, di per se, secondo la psicoanalisi, un reale progresso terapeutico, mentre, per la maggioranza degli altri indirizzi, è generalmente vero l’opposto; 4) last but not least, l’ambiguità autogiustificatoria della stessa psicoanalisi di fronte ai suoi fallimenti terapeutici, che, infatti, vengono intesi come prova della resistenza in termini del paziente ( o della sua incapacità di comprensione) e quindi mai considerati come elementi disprovanti la bontà e validità del metodo psicoanalitico.

Più interessanti ma decisamente più complesse e articolate sono le ricerche tese a controllare i risultati emotivi della psicoanalisi rispetto a quelli conseguiti da altri approcci psicoterapeutici.

Ci è impossibile, per ragioni di spazio e per il numero estremamente elevato di tali ricerche, darne un’esposizione dettagliata e analitica. Al lettore che vi fosse interessato, non possiamo che consigliare i classici lavori di Heine (37), Ellis (15), Dudek (14), Aronson e Wemtraub (1, 2 e 3). Avvalendoci dei dati emergenti tanto dalle indagini sperimentali più rigorose che delle conclusioni generali cui concordemente pervengono gli Autori di due pregevoli compendi sull’argomento (Cfr. 21 e. 36), possiamo sintetizzare nel seguente modo il quadro del risultati emergenti:

  1. non esistono prove, dati e fatti che consentano di ‘ritenere che "la psicoanalisi produca nei pazienti modificazioni più durevoli e profonde di quelle ottenute con altre terapie (Cfr. anche 12, 16); 2) parimenti destituita di convalida empirica si presenta" la pretesa che nei casi di nevrosi acuta la psicoanalisi... ottenga risultati superiori a quelli delle terapie a termine più breve (21, pp. 351 e 361); 3) nei casi in cui i pazienti mostrino una buona "funzionalità generale della personalità", gli effetti terapeutici sono tali da ritenere che non abbiano connessione col tipo specifico di trattamento impiegato. Fisher e Greenberg aggiungono anzi che simile tipo di paziente ha una possibilità statistico-percentuale di miglioramento che rimane identica sia che si sottoponga ad un qualsiasi procedimento terapeutico sia che invece non se ne avvalga (ivi, p. 357 e anche Harper, 36 ); 4) in ordine ad alcune specifiche forme psicopatologiche, come le nevrosi fobico-ossessiva (specie se non croniche e monoideative) e d’angoscia, l’approccio psicoanalitico esprime effetti terapeutici significativamente inferiori a quelli prodotti con terapie comportamentistiche (decondizionamento, modeling, flooding), le quali, è bene sottolinearlo, riescono a determinare una remissione sintomatologica molto elevata sia sul piano quantitativo che temporale, tale cioè da non mettere pressoché mai capo a quella sostituzione del sintomo che, secondo la psicoanalisi, dovrebbe verificarsi in quei procedimenti che non affrontano il livello inconscio degli handicap psicologici, prescindendo così dai livelli introspettivo-autocoscienziali del soggetto (4, 55, 56, 64, 70, 71 ); 5 l’unico reale e controllato elemento differenziante i risultati terapeutici delle varie tecniche di trattamento non è stato rinvenuto al livello della qualità o quantità dei cambiamenti avvenuti sul piano emotivo-com-portamentale e relazionale, bensì al livello soggettivo del modo con cui i pazienti -a seconda dell’orientamento teorico del loro terapeuta interpretavano il cambiamento avvenuto e i fattori che l’avevano promosso (21, 39 e, molto accuratamente, anche 35).

Se si riflette su queste indicazioni statistico-sperimentali, e si tiene ben presente il vantaggio che la psicoanalisi ha rispetto ad altre terapie, in quanto si rivolge a pazienti già preventivamente selezionati è quindi tali da possedere quelle cantieristiche "ideali" e predisponenti al trattamento psicoanalitico (evitando così tutti quei soggetti a prognosi meno fausta o a decorso più complesso e spigoloso), ci pare legittimo affermare che i risultati della psicoanalisi non solo come dianzi emerso non siano, almeno, sul piano dell’osservabilità esterna, sostanzialmente dissimili dai risultati di altre psicoterapie, ma si trovano in significativa correlazione con aspetti psicologici, sociologici, culturali ecc. dei singo1i pazienti che si ricordi quanto detto al punto 1 - paiono di per se terapeutici o per lo meno predisponenti ad uno spontaneo miglioramento dell’equilibrio psicologico. In sede più decisamente teoretica, quanto sinora visto induce ad un nuovo modo di intendere ed ipotizzare i reali fattori terapeutici della psicoanalisi, " come di altre psicoterapie. Giacche infatti i risultati clinici si presentano come sostanzialmente sconnessi con i postulati teorici e tecnici dei singoli trattamenti, ci pare credibile sostenere che essi debbano essere ricordati e spiegati alla luce di schemi e modalità di relazione e comunicazione messi in opera sia inconsapevolmente che con erronea percezione di essi dal terapeuta stesso verso il proprio paziente. Volendoci qui soffermare sul trattamento psicoanalitico soltanto, intendiamo sostenere che esso si sorregga malgrado le sue dichiarate asserzioni di principio anche sull’utilizzo di rapporti suggestivo-direttivi aventi la loro specificità operativa non come avviene nell’ipnoterapia classica (Cfr. 15, 47) nel comando, nell'ingiunzione o nella gestualità, bensì nella struttura spaziale del setting e nel controllo sistematico delle forme e dei contenuti delle comunicazioni verbali del/col paziente.

3. La "guarigione psicoanalitica": la persuasione paradossale

Si è visto, nel paragrafo precedente, che i procedimenti psicoanalitici, operanti nella situazione di setting, svelerebbero la loro razionalità-legittimità in quanto funzionali secondo Freud da un lato all’osservazione oggettiva del paziente, dall’altro alla produzione di interpretazioni favorenti l’insight nell’analizzato, senza ricorso o intervento alcuno dell’influenza personale dell’analista.

Già si è dimostrato il carattere illusorio di questa "obiettività " sul piano schiettamente gnoseologico -a seguito del ruolo inevitabilmente svolto dalle aspettative teoretico-emotive dell’analista e dell’impossibilità di controllare rigorosamente l'esattezza delle sue interpretazioni alla luce delle risposte verbali-comportamentali del paziente. Siamo dell’avviso che anche e a maggior ragione al livello squisitamente terapeutico, la parte svolta dall’analista possieda caratteristiche (e incidenza) ben diverse da quelle della neutralità e non direttività, tanto care alla coscienza e deontologia psicoanalitiche. La correttezza di questo rilevamento critico è già inducibile da alcune affermazioni dello stesso Freud -a patto che si abbia l’accortezza di superarne la curvatura talvolta mistificante (46, 53).

Nel significativo scritto del 1898, La sessualità nell’eziologia della nevrosi, (23) Freud ci mostra chiaramente il ruolo pesantemente condizionante attuato dall’analista per convincere il paziente della correttezza della diagnosi: "Una volta Posta con sicurezza la diagnosi di nevrosi nevrastenica e raggruppati Correttamente i sintomi, si deve tradurre la sintomatologia in etiologia e poi chiedere risolutamente al paziente la conferma delle proprie ipotesi. Non bisogna lasciarci trarre in errore dal fatto che, inizialmente, il malato negherà ogni cosa; ci si attenga fermamente alle conclusioni cui si è giunti, e si finirà di vincere ogni resistenza insistendo sul carattere 1irrefutabile del proprio convincimento" (23, pp. 403).

Non stupisce alla luce di questo stile diagnostico che Freud trovasse "negli oltre duecento casi aventi in Cura" (ivi) piena conferma delle proprie tesi arrivando a sostenere, senza il minimo autocontrollo critico, che "nella teoria dell’etiologia sessuale della nevrastenia non vi sono eccezioni" (ivi). (Per inciso, va notato che questo è forse uno dei pochissimi casi in cui Freud formula una teoria rispettando, ante litteram, i canoni popperiani della falsibilità. Infatti, tale teoria non solo è falsifica bile ma anche... falsificata. Si veda 21 e Jung, 43). Ciò che, invece, stupisce profondamente è la totale mancanza in Freud d’un obiettivo esame della sua stessa esperienza terapeutica, che lo porta ad asserzioni al limite del grottesco.

Nello stesso scritto, infatti, avvertendo il rischio "che l’insistenza del medico (terapeuta) Possa indurre un malato, psichicamente normale, ad attribuirsi falsamente una trasgressione sessuale" (23, pp. 403) Freud non esita ad affermare che "tale pericolo... si può tranquillamente (sic!) trascurare perché è un pericolo immaginario" (ivi). Simile tesi, si noti, non solo e una dogmatica petitio principii, ma, quel che è peggio, occulta l’incontestabile fatto che fino a poco prima, Freud curava i propri pazienti alla luce della "convinta" teoria della seduzione sessuale, in età infantile, che aveva documentato con ben 18 "evidenti" casi clinici ,Cfr. 68). C’è quindi da chiedersi, con Fisher e Greenberg "quanti pazienti siano stati persuasi dalla forza delle convinzioni di Freud d’essere stati sedotti" (21, p. 388). E’ noto, infatti, che egli stesso abbandonò, perché infondata, questa teoria. Ancora, aggiungiamo noi: c’è pure da domandarsi come mai Freud non si sia posto, in seguito a quell’abbandono, il problema del perché tali pazienti fossero guariti grazie (o nonostante) una diagnosi errata. Se l’avesse fatto, probabilmente sarebbe pervenuto alle stesse conclusioni d’un ricercatore contemporaneo, W. Mendel (57, su cui torneremo) il quale, dimostrando la possibilità di effetti terapeutici sia con interpretazioni corrette che erronee, sposta l’attenzione sui temi delle aspettative di sicurezza e comprensione del paziente e della suggestività del terapeuta, evidenziando così un orizzonte problematico che la psicoanalisi pare costantemente rimuovere ed occultare.

Ma il luogo ove, più d’ogni altro e grazie ad una ammissione sia pure reticente è possibile rinvenire, con sufficienza chiarezza, un vero e proprio utilizzo di tecniche suggestive durante il trattamento analitico, risiede proprio nell’esposizione freudiana delle dinamiche transferali nel proprio rapporto con le resistenze interne del paziente ed alla messa in moto del processo della rielaborazione analitico-terapeutica ( di cui si è parlato poc’anzi). Nel cuore dell’importante scritto su La tecnica della psicoanalisi (27 e precisamente nel saggio "Dinamica della traslazione" v. 6 pp. .529), Freud si dichiara " pronto ad ammettere che i risultati della psicoanalisi si fondano sulla suggestione" a patto di intendere con tale termine solo e null’altro che "1’influsso su una persona attraverso i fenomeni di transfert possibili nel suo caso" (ivi, pp. 509). Possiamo indurre da simili osservazioni, che Freud quindi ammette l’esistenza di componenti suggestive nel trattamento psicoanalitico, ma ha cura di sottolineare:

  1. che esse non sono indotte deliberatamente dal terapeuta, ma nascono spontaneamente dal paziente stesso;
  2. e che vengono attivamente utilizzate dall’analista, mettendole al servizio del superamento delle resistenze interne dell’analizzato e solo di esso.

Per queste sue caratteristiche la suggestione psicoanalitica non inciderebbe ne sull’osservazione analitica ne sulle acquisizioni teoriche da essa scaturenti in ordine al reale funzionamento psicodinamico della personalità del paziente. Anche qui, però, a ben vedere, ci troviamo di fronte ad un’altra petitio principii, fondata, per di più, sulla scotomizzazione di quegli aspetti del comportamento dell’analista che di per se paiono suggestivi ( 48 ).

Come è possibile, infatti, ammettere che la dipendenza suggestiva della fase transferale abbia rilevanza solo in ordine alla resistenza al cambiamento opposta dal paziente e non sia invece "il cavallo di Troia" che consente all’analista di far passare, trovandone poi conferma, i propri convincimenti teorici e le proprie ipotesi diagnostiche, specie se si basano su dati estremamente ambigui e discutibili, su interpretazioni macchinose e tutt’altro che evidenti, o su "certezze interiori" (magari indotte dall’esperienza) che non trovano ancora riscontro nelle comunicazioni (sintomatiche e non) del paziente? Del resto, proprio Freud, senza avvedersene, conferma la piena legittimità di questi dubbi quando, in un altro suo scritto-chiave del 1937: Costruzioni in analisi, afferma: "Molto spesso non riusciamo ad ottenere che il paziente ricordi ciò che è stato rimosso. In luogo di ciò, se l’analisi è condotta correttamente, gli diamo il sicuro convincimento della verità della costruzione, cosa che ha lo stesso risultato terapeutico del ricordo trovato" (30).

Non è qui consegnata in forma mistificata una parafrasi dell’attività suggestivo-persuasiva dell’analista? Egli non può dimostrare l’esistenza di materiali rimossi e pur tuttavia non esita a dirsene certo e a convincere il paziente. E in base a cosa ci chiediamo se non allo sfruttamento del potere d’influenzamento che gli deriva dal suo ruolo? Per converso, il paziente che accetta di credere in ciò che non s’è visto apparire in analisi non è ancora in balia di quel legame libidico-transferale che, come Freud stesso ha riconosciuto, prescinde da "percezione e ragionamento"? Ma vi è un altro sconcertante fatto che emerge dal brano citato. Se si riconosce che l’effetto terapeutico del ricordo di elementi rimossi è identico al convincimento della loro esistenza (offerto dall’analista al paziente), diviene molto probabile l’ipotesi che tale effetto, in. entrambi i casi, non abbia tanto a che fare con l’insight bensì con la pura e semplice suggestione, messa in moto da un’analista su un paziente predisposto, in quanto così bisognoso di veder ridotte le sue angosce da essere pronto ad accettare qualsiasi spiegazione plausibile anche se non per questo vera (13, 15, 19, 20, 22, 56, 66). E’ bene precisare -a questo punto che quando usiamo il termine suggestione, non intendiamo riferirci a fenomeni crassamente manipolatori di una personalità da parte di un'altra. Con tale termine vogliamo indicare integrando e ridefinendo una ipotesi di W. Poll (61) l’insieme di strategie verbali e situazionali, non necessariamente coscienti in chi le adopera, che consentano di portare o trasportare nella coscienza altrui dei contenuti conosciti1Ji (non importa se veri o errati) o delle indicazioni al cambiamento in modo tale che passino al di sotto dei reticoli logico-razionali e critico-discriminativi del soggetto. Affinché una azione o comunicazione suggestiva sia tale è pertanto indispensabile: 1) che presenti una relazione forma-contenuto specularmente rovesciata rispetto alla comunicazione razionale ( deve essere cioè tale che il suo contenuto si presenti così avvolto e penetrato dalla sua forma da poter passare nella coscienza altrui non per se stesso, ma per la forma in cui si presenta); 2) che sia rivolta ad un soggetto che per la situazione contingente in cui si trova o per complesse causazioni personologiche sia già predisposto a ricevere comunicazioni di questo tipo, pur restando libero. Siamo dell’avviso che il trattamento psicoanalitico non solo presenta fenomeni suggestivi di questo tipo, ma anche li produca e li esiga inconsapevolmente per ottenere effetti terapeutici.

Simile ipotesi _.oltre che sulle osservazioni dinanzi esposte circa alcuni testi freudiani ci pare trovi fondamento e maggiore evidenza se si focalizza l’attenzione critica tanto su alcuni tratti personologici del paziente medio che si rivolge alla psicoanalisi, quanto sul carattere permissivo-repressivo o indirettamente direttivo che sta alla base delle transazioni comunicazionali imposte dall’analista nella situazione di setting.

4.   Il paziente sofisticato ( e autosuggestionato) della psicoanalisi

Il paziente psicoanalitico ha in comune con il paziente di qualsiasi altro orientamento terapeutico il fatto di trovarsi nella generalità dei casi in una situazione di profondo disagio e sofferenza interiori, conseguenti all’incapacità di gestire la propria vita privata e/o relazionale. A differenza del paziente sofferente di disturbi organici, il paziente psicologico-psichiatrico approda dall’analista o terapeuta con alle spalle il fallimento di tutti i suoi tentativi di risolvere autonomamente i propri conflitti: ossia quando i suoi meccanismi nevrotici tendono ad azzerare i loro effetti compensativi, lasciando emergere, con forza crescente, le loro componenti auto-etero distruttive.

Già questi fattori lo si è visto con Mendel (57, ma si guardino anche altre ricerche: Il, 13, 19, 22, 56 e 59, nonché 20 e 35) sono di per se predisponenti alla dipendenza suggestiva da qualsiasi spiegazione o tecnica che presenti la semplice possibilità del loro superamento, Accanto a questo minimo comun denominatore però, il paziente psicoanalitico presenta delle originali e specifiche connotazioni che lo predispongono agli originali e specifici meccanismi suggestivi della psicoanalisi o, meglio, a ricevere e afferrare la forma espressiva ed il contesto culturale che supporta i contenuti teorici-esplicativi delle interpretazioni analitiche. Ciò non avviene per caso bensì per il semplice fatto che si tratta come s’era accennato - d’un paziente che è stato selezionato secondo i parametri della "sindrome di Yarvis". E’ proprio nei requisiti indicati nelle ultime tre lettere della suddetta sindrome che possiamo individuare i tratti personologici più significativi ai fini della nostra ipotesi. Ci riferiamo a quelli: della buona e scorrevole capacità di espressione verbale, dell’intelligenza e della sofisticazione intellettuale e colta. Ma il luogo in cui più che in ogni altro e con maggior chiarezza è possibile cogliere la presenza di tecniche e di strategie funzionali ad un depistamento suggestivo dell’atterizione e delle comunicazioni .del paziente, al fine di produrre in esso un "volontario cambiamento" ideativo-comportamentale, è da rinvenirsi oltre che nella forma in se del linguaggio psicoanalitico soprattutto nel modo con cui l’analista controlla l’analizzato, ponendolo in una continua ed inaccettabile situazione di scacco dalla quale questi non potrà uscire se non facendo proprie le regole del "gioco psicoanalitico".

Il contributo fornito, su questo tema, dalla teoria ecologico-comunicazionale (6, 35 e, in parte, 16), nel dimostrare chiaramente la presenza di una "comunicazione paradossale" nell’ambito del setting psicoanalitico è troppo importante e complesso per essere aggiunto alle considerazioni fin qui esposte.

Con tali considerazioni ci sembra, comunque, aver sufficientemente dimostrato che:

  1. Freud, attraverso l’elaborazione pluridecennale delle sue teorie, ci ha consegnato una fonte di dati che rappresentano, a tutt’oggi, nel campo psicologico il corpus dottrinario più imponente e, senz’altro, uno dei più "fascinosi". Il contributo gnoseologico della psicoanalisi è stato è e sarà sempre importante. Per contro, il suo identificarsi tout- court con la psicologia, l’incapacità di confrontarsi non solo a livello teorico ma soprattutto pratico con altre ricerche speculative e con le loro applicazioni cliniche (47, 48, 53), rende attualmente la psicoanalisi, così come nel passato, un sistema che di veramente scientifico ha Solo l’intenzione (46). Le autocompiaciute affermazioni di Freud e dei suoi seguaci più ortodossi, costituenti la "scuola", frenano, attraverso il mancato confronto con gli altri indirizzi di ricerca, quell’ulteriore progresso scientifico al quale, con le loro intuizioni, hanno pure così mirabilmente contribuito;

2) dal punto di vista terapeutico, la metodica psicoanalitica è ben lungi dal rappresentare quanto i suoi cultori, strenuamente, acriticamente ed ingenuamente affermano: l’essere cioè pienamente rispettosa della personalità del paziente e, pertanto, non-direttiva e, men che meno, suggestiva. Per contro, la sua raffinata e ben mascherata suggestività la rendono, se applicata rigorosamente e ortodossamente, così incoercibilmente e subdolamente direttiva da impedire la messa in atto di ogni meccanismo di difesa contro di essa: o si accetta il credo o... si hanno delle "patologiche resistenze".

 

Riassunto

La psicoanalisi non è soltanto una particolare, sia pure problematica, . tecnica di indagine e studio dei processi dinamicamente inconsci della i psiche, ma anche un metodo terapeutico teso a risolvere i conflitti psicologici e le difficoltà del comportamento. Su quest’ultimo aspetto gli Autori volgono la loro attenzione ritenendo indispensabile, per la ricerca psicoterapeutica, una verifica del suo valore, della sua affidabilità e dei suoi limiti. A tal fine, gli Autori esaminano la concezione freudiana del mutamento terapeutico, rilevano i connotati socio-culturali e sintomatologici del paziente medio della psicoanalisi e infine confrontano i risultati terapeutici psicoanalitici con quelli di altre, differenti psicoterapie. In questo modo, gli Autori possono dimostrare che la psicoanalisi in quanto tecnica psicoterapeutica non è ne una procedura puramente analitico-razionale, vale a dire assolutamente priva di effetti direttivo-suggestivi, ne è in grado di produrre risultati terapeutici che siano, costantemente e al di là d’ogni dubbio, migliori per qualità e durata di quelli di psicoterapie brevi, non dinamiche e comportamentistiche.

 

Summary

Psychoanalysis is not only a particular if problematic technique of detecting and studying the dynamically unconscious process of the mind, but also a therapeutic method aimed at solving psychological conflicts and behaviour difficulties. On this latter aspect the authors focus their attention deeming it essential, for psychotherapeutic researches, to verify its value and reliability together with its limits. Within this scope, the authors go through the freudian theories of therapeutic change, analyse the social, cultural and symptomatic features of average psychoanalytic patients and finally compare psychoanalytic therapeutic results with those coming from different psychotherapies. Consequently the authors can prove that psychoanalysis as a psychotherapeutic technique is neither an only rational-analytic procedure, with no directive and suggestive effects at all, nor israble to produce therapeutic results which are constantly and undoubtly of a better quality and a greater length than those obtainable with short-term, non-dynamic and behavour therapies.

Del vivere e del morire

Sito del dott. Ivano Lanzini

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