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Psicoterapia Ipnotica

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Viaggi nella pratica clinica : Anna Rossi intervista il dott. Ivano Lanzini

La Rubrica, iniziata due anni or sono, ha  incontrato finora terapeuti di diverso orientamento nell’area della psicoterapia ipnotica, ascoltando poi più recentemente terapeuti di orientamento psicodinamico, che hanno dimostrato interesse teorico e/o clinico nei confronti dell’ipnosi. Accostare queste prospettive cliniche, tradizionalmente meno vicine all’ipnosi, è a mio parere importante perché può permettere alla psicoterapia ipnotica di potenziare i propri strumenti senza perdere in nulla la propria specificità.

L’intervista di questo numero incontra un membro della AMISI, il quale, avendo partecipato alla stesura del Manifesto Teorico della Scuola, ha sottolineato in particolare le possibilità della integrazione della prospettiva psicodinamica nella psicoterapia ipnotica. La figura di Ivano Lanzini non necessita di lunghe presentazioni. Epistemologo, psicologo, psicoanalista, è docente della Scuola Europea dell’AMISI, autore di pubblicazioni sulla nostra Rivista e di diversi libri.

Nell’intervista il suo pensiero, pur non eludendo la inevitabile complessità di alcuni temi, ci è offerto in una esposizione generosa e impegnata, cui è naturale corrispondere con lo stesso interesse comunicativo.  

  

In quale modello teorico inquadri il tuo lavoro clinico attuale e quali modelli teorici sono stati importanti nella tua formazione psicoterapica ?

Da un punto di vista culturale, il mio incontro con la psicologia, prima, e la psicoterapia, poi, avviene sulla base di sollecitazioni teoretiche di matrice schiettamente epistemologica, che, schematizzando molto, ruotavano attorno al problema delle condizioni di possibilità di una coerente teoria del soggetto e della soggettività, capace di sfuggire alle aporie della sociologia di impianto marxista e ai residui positivistici  insiti nel comportamentismo skinneriano. In questa prospettiva come non muovere dalla psicoanalisi? Ovvero, come non prendere le mosse dall'attenta ricognizione su quello che, sino a tutti gli anni Settanta, si configurava come l'orizzonte teoretico più sofisticato e promettente (nonché formalizzato e coerentizzato: pensa a Rapaport!), proprio in ordine alla comprensione dei processi di costituzione della soggettività: di quell'affascinante "passaggio" per cui un corpo si fa mente!

Ovviamente, questa istanza teoretica, declinandosi con le istanze più squisitamente psicologiche dell'esperienza formativa psicoanalitica stricto sensu, intesa e praticata secondo le modalità che Massone ha così ben tratteggiato nella tua precedente intervista con lui, mi ha portato ad assumere l'approccio psicoanalitico come referente della mia stessa pratica clinica. Mi rendo conto dell'ambiguità del termine approccio e, se vuoi, anche della sua implicita valenza polemica: antiscolastica. Del resto così è stato, così a tutt'oggi rimane. Anche grazie all'esperienza fondamentale (per me e per vari altri psicoterapeuti) dei gruppi di formazione condotti con stile paradigmaticamente antidogmatico  da Massone, come Associazione di studio per la psicoterapia analitica non direttiva, la psicoanalisi è sempre stata assunta e praticata nella sua connotazione analitica: come metodo (provvisorio e approssimato) di indagine sulla fenomenologia psichica, in quanto allusiva ad un livello non meramente conscio e comportamentale dello psichismo stesso; ad un livello, per di più, dotato di una sua logica-altra e perciò bisognosa di una strumentazione concettuale particolare, specifica, iuxta propria principia. Comunque io ho approcciato la psicoanalisi in modo abbastanza classico. Per me Freud è sempre stato Freud, prima e seconda topica ecc. Con i suoi limiti, ma con l’eleganza formale e la coerenza concettuale che non ho più ritrovato in nessuno dei più accreditati sviluppi postfreudiani.

 

Queste esperienze formative influenzano tuttora il tuo lavoro clinico?

A quasi 20 di distanza dai miei primi passi teoretici, non posso non riconoscere la sostanziale attualità gnoseologica e, in ogni caso, euristica non della psicoanalisi nelle sue sempre più differenziate e probabilmente non (più) componibili modellistiche mentali (che pure non possono assolutamente essere liquidate con supponenza "neuroscientifica" - almeno fino a quando le riduzionistiche e biologicistiche concettualizzazioni del rapporto mente-corpo continueranno ad avvolgersi in contraddizioni e aporie tipiche dello scientismo veramente rétro degli anni Sessanta) quanto e soprattutto della psicoanalisi come sistematico, appassionato e pertinace tentativo di comprendere la dinamica delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti (specie se dolorosi, angoscianti, paralizzanti) dell'individuo attraverso relazione e dialogo, attraverso cioè gli aspetti più essenzialmente (e niente affatto banalmente) umani del rapporto interpersonale.

Ecco forse potrei dire così parafrasando alcuni passi della grande lezione kantiana: oggi, grazie al cielo, la psicologia e la psicoterapia possiedono diverse reti per pescare nel mare, anzi nell'oceano vorticoso e inquieto che è l'uomo sofferente. Di più, oggi sappiamo che ogni rete pesca i suoi pesci e che tutte ne pescano almeno alcuni. Ancora, sappiamo che la totalità delle reti disponibili non solo non è ancora adeguata alla totalità della fauna ittica, ma probabilmente non lo sarà mai del tutto - perché nulla potrà davvero garantirci che non esistano pesci che sfuggono per dimensioni e comportamento alle nostre reti e alla nostra bravura di pescatori.

In questo contesto, penso che le reti psicoanalitiche continuino egregiamente a farci prendere pesci interessantissimi. Personalmente, questi pesci - il loro studio - rappresentano il senso intellettuale e umano del mio essere, malgrado tutto, ancora uno psicoanalista: anzi uno psicoanalista che usa, in diverso contesto e per diversi “pesci” anche altre reti e, tra queste altre, quelle forti, spesse e delicatissime da maneggiarsi con intelligente cura della psicoterapia ipnotica.

 

  

Vuoi brevemente specificare le tue obiezioni al pensiero psicoanalitico postfreudiano ?

Sono essenzialmente di matrice epistemologica e si riassumono in una duplice constatazione (che trova peraltro riscontro in molti dei lavori di A. Grünbaum e soprattutto nel suo celebre I Fondamenti della psicoanalisi). Dopo Freud vi è stato, indubbiamente, un enorme sviluppo della clinica psicoanalitica, soprattutto verso tre direzioni fenomenologiche: 1) la dimensione pre-edipica (e le sue connessioni con il “campo delle psicosi”); 2) la dimensione del Sé (si pensi solo a Kohut) ; 3) la dimensione relazionale e controtrasferale (si pensi alle gruppoanalisi e all’affascinante recupero dell’asse Balint-Ferenczi, che, a mio parere, avrà anche una sua  rilevanza per il futuro dell’ipnosi in quanto psicoterapia). Detto questo, va subito aggiunto un parallelo indebolirsi dei livelli di tenuta metodologica e generalmente epistemica a livello di costruzione di modelli e, soprattutto, delle loro procedure osservative di costruzione. Come, assieme a Massone, ho sottolineato in Psicoanalisi non direttiva: a partire dal kleinismo si assiste ad un processo di distanziazione tra dato osservativo (tra fenomenologia della clinica) e ipotesi interpretativo-ricostruttiva così radicale da rasentare l’arbitrio e la pratica incontrollabilità empirica. Nonostante il proliferare di fascinosi racconti clinici ove i meandri più riposti, arcaici della mente (di una mente anche neo-natale!) vengano analizzati, spiegati, decostruiti, ricostruiti, profondamente compresi e commentati al paziente… restano a tutt’oggi tutte le gravi perplessità (amaramente ricordata da Maharaba in suo celebre testo sulle psicoterapie) sul fatto di poterle considerare minimamente e scientificamente affidabili.

Per questi motivi, le mie obiezioni alla psicoanalisi dopo Freud si condensano nel constatare come nessuno dei “nani” (peraltro robusti e chiacchieroni) abbia indicato al “gigante”(sulle cui spalle stavano avvinghiati) nuove e più rigorose andature metodologiche e interpretative o perlomeno gli abbia evitato di ricadere nelle “buche” dell’asseverazione autoritaria, del dogmatismo settario o della tolleranza solo diplomatica verso altri punti di vista psicodinamici.

 

 

È possibile chiederti, senza usarti troppa violenza, di sintetizzare in pochi punti che cosa in particolare rende Freud ai tuoi occhi così coerente e così completo? So che non si può rispondere in quattro parole, ma siccome del pensiero di Freud sono state fatte tante schematizzazioni, mi chiedo se ne puoi fare una tua personale.

Laplanche e Pontalis nel loro famoso dizionario dicono che se si dovesse riassumere con un termine la psicoanalisi questo termine sarebbe l’inconscio. Io non direi così. Perché proprio l’esperienza post-freudiana ha mostrato la complessità epistemica del concetto stesso di inconscio, la sua natura semanticamente labirintica, polisensica. L’inconscio, oggi, non è più un “luogo”, o un locus concettuale omogeneo e relativamente chiaro, bensì un intreccio, anzi un intrico di luoghi, prospettive e linguaggi (con buona pace di Lacan). Non penso, per esempio, che tra i vari indirizzi psicoanalitici sia reperibile una seria, cioè concettualmente rigorosa e univoca, definizione di inconscio, anche perché questo inconscio risulta popolato da “oggetti” tra loro molto diversi a seconda dei diversi orientamenti.

Per questo, io preferirei, facendomi violenza, “associare liberamente” il termine psicoanalisi a quello di “meccanismi di difesa”. È vero che da un punto di vista concettuale i due termini sono implicati, però l’implicazione tra “meccanismi di difesa” e “inconscio” è meno rigida e consequenziale di quanto sembri. In ogni caso è un’implicazione che non (ci o mi) vincola a nessuna predefinizione di inconscio. Personalmente penso che i meccanismi di difesa siano la più grande intuizione clinica di Freud. Tanto che non credo si possa essere, non dico psicoanalisti, ma nemmeno buoni, attenti, efficaci e rispettosi psicoterapeuti senza aver capito bene che cosa è un meccanismo di difesa. Se io dovessi dire che cosa è clinicamente la psicoanalisi, direi è la più coerente teoria dei meccanismi di difesa, intendendo per meccanismi di difesa la totalità dei processi e delle strategie (largamente inconsce) con cui noi tentiamo di evitare l’angoscia, di controllarla, di diluirla, di spostarla, di contenerla ecc. E secondo me questa definizione è sufficientemente ampia da prendere dentro di sé anche il meglio del contributo kleiniano che, al di là della sua impressionante fragilità epistemica, ci presenta la scoperta, clinicamente rilevante, della centralità dell’angoscia, quale ipotesi comprensivo-esplicativa delle zone più opache ed arcaiche della sofferenza psichica. Di quelle zone che giustamente possono esser chiamate pre-edipiche. Anche se questo nulla ha a che vedere con quella anticipazione kleiniana dell’Edipo al primo anno di vita, sulla cui attendibilità riscontriamo, a tutt’oggi, quasi esclusivamente le rassicurazioni…dei kleiniani.

Tra i meccanismi di difesa, per tornare alle scoperte psicoanalitiche, fondamentale è l’individuazione della formazione reattiva. Perché è quella che permette di  accedere alla comprensione di una delle strade maestre della costruzione della personalità. Ed è altresì un concetto che permette una rivisitazione critica dell’importantissimo concetto di autenticità (così centrale e però “spiritualizzato” e metafisicizzato nella tradizione della psicologia umanistico-esistenziale e nella psichiatria fenomenologica e nella psicologia del Sè). Freud, su questo versante, si mostra più attento e accorto di un Rogers, di Maslow, di Rollo May e di Biswanger. Si rende conto dei rischi di una mitologia dell’autenticità, svincolata da una analisi delle modalità di difesa, che, in quanto precocissime, per la precocità dell’interazione ambientale di un soggetto…prematuro, impediscono di individuare un “luogo puro” di un puro Sé, di una specificità assolutamente autentica del soggetto…e del suo inconscio prospetticamente buono, positivo, propulsivo se solo lo si lasciasse funzionare!

 

Cosa intendi allora per autenticità?

Quello dell’autenticità e dell’inconscio “buono” è un mito, o se si vuole una metafora molto diffusa anche tra noi psicoterapeuti ipnotisti e che ha in Erickson un suo “credente”. Erickson crede appunto che l’inconscio sia buono, sano,  prospetticamente  positivo. Ritiene che nel nostro inconscio ci sia uno zoccolo duro di potenzialità, competenze, risorse che sono passate sostanzialmente indenni rispetto alla legge dei condizionamenti, sia skinneriani che pavloviani… È un bellissimo mito, l’importante è saperlo. È l’equivalente della fantasia della coppia buona dei genitori. Ma non è vero, e su questo mi pare abbia ancora oggi ragione Freud. L’unica autenticità nostra è (forse) il nostro zoccolo biologico, non psicologico. Però la formazione reattiva apre la porta all’autenticità, o meglio all’unica autenticità possibile. Se noi permettiamo alla persona di analizzare come si difende, da cosa si difende, perché, e da quando, bene allora avremo contribuito al suo poter divenire più sincera con se stessa, più trasparente.  E autentica. Questo, ovviamente, non significa negare, contro Rogers e anche Erickson, che in effetti noi subiamo dall’ambiente in cui viviamo molto più del dovuto, e in qualche caso del tollerabile. Né che spesso questo nostro subire comporta un blocco di capacità, competenze che però continuano a sussistere nell’inconscio (o appena sotto i livelli di consapevolezza, freudianamente nel “preconscio”). Più semplicemente significa non smarrire mai  la centralità del conflitto intra-psichico, interno all’individuo, tra le sue divergenti istanze pulsionali e identificatorie e proiettive  rispetto al conflitto individuo-ambiente.  Si tratta comunque di una  tematica che diviene molto più comprensibile e coerentizzabile tramite griglie freudiane che sono molto più fini, molto più fini.

 

Che cosa c’è dunque nel nostro inconscio per uno psicoterapeuta ipnotista a orientamento psicodinamico coautore del Manifesto della Scuola Europea AMISI?

Di sicuro c’è tutto quello che dice Milton Erickson. Il punto è come intenderlo e cosa farnedopo Erickson, nonché nel contesto di una pratica teorica e clinica della psicoterapia ipnotica aperta a tutti i contributi provenienti dai più importanti indirizzi della psicologia contemporanea e, tra questi, a mio parere (ma anche a parere significativo di David Spiegel) a quelli imprescindibili di matrice psicodinamica.

Dico dopo Erickson, non solo perché il nostro Manifesto didattico, fin dalla sua prima stesura, si definiva neo-ericksoniano,  con ciò già alludendo all’esistenza di qualcosa di “paleo” dentro il pensiero di M. Erickson.  Ma soprattutto perchè in quel pensiero soltanto non è possibile trovare quello che massimamente interessa alla nostra Scuola: l’orizzonte teoretico entro cui iscrivere il progetto di una psicoterapia ipnotica: ovvero di un uso del rapport e della trance (in tutta la sua complessa fenomenologia) che sia già parte ed espressione di un approccio compiutamente psicoterapico.

Certo, senza Milton Erickson non sarebbe oggi possibile nemmeno ipotizzare la possibilità di una ipnosi così carica di psicologia, di relazione e transfert…da essere psicoterapia. Resta però il fatto che in Erickson sono reperibili soprattutto esempi clinici di psicoterapia ipnotica più che strutture concettuali tali da identificarla e “legittimarla”. A mio avviso tali strutture concettuali sono in parte reperibili e, soprattutto, costruibili attraverso un recupero critico, condotto sulla base della specificità tecnica del rapport, del meglio della tradizione delle psicoanalisi. E, a questo riguardo, ritengo opportuno sottolineare l’importanza, tanto concettuale, se vogliamo anche filosofica e, in misura altrettanto significativa, anche clinica dei contributi di Chertok e della Stengers – mi riferisco a quel gioiello che è il loro Le coeur et la raison – che rappresentano uno dei più interessanti tentativi di superamento delle gravi incomprensioni freudiane e postfreudiane della fenomenologia ipnotica, unitamente ad un recupero della dimensione relazionale-implicativa del rapporto terapeuta-paziente contenuta nell’esperienza di Ferenczi.

 

Hai ben rappresentato il panorama teorico piuttosto vasto in cui ti poni in modo decisamente personale. Sarebbe interessante poter approfondire alcune tue osservazioni, ma attenendoci alla intenzione prevalentemente clinica dell’intervista, ora ti chiedo di dirmi come hai integrato i concetti che hai espresso nel tuo operare clinico di psicoterapeuta.

Li ho integrati secondo due modalità diverse. A un certo livello li ho dovuti tenere metodologicamente vicini ma separati, nel senso che io distinguo in modo non formale tra lo psicoanalista e lo psicoterapeuta. Non perché la psicoanalisi non sia una psicoterapia, ma perché la psicoanalisi è una psicoterapia con delle modalità e finalità particolari sostanzialmente centrate attorno all’approfondimento qualitativo della conoscenza di sé. Quando Freud auspica che dove si trova l’inconscio lì si ricollochi l’Io, non fa altro che sintetizzare in modo aforisticamente efficace, l’essenza della psicoanalisi come progetto terapeutico ove il curare è un side effect del capire, anzi del capirsi dentro una relazione.

Conseguentemente, sarà il paziente, la sua personalità, le sue attitudini al dialogo interiore all’introspezione psicologica, oltre che ovviamente la sua fenomenologia sintomatologica a determinare il mio pormi come analista o terapeuta di fronte a lui/lei. In altri termini, è il bisogno presentato dal paziente, bisogno nella accezione che dicevi tu, e quindi distinguendo il sintomo dichiarato, quello su cui ti chiede il contratto e (probabile) la trama di significati (anche esistenziali, certamente anche inconsci) che per il tramite del sintomo si presentano celandosi.

La cosa notevole – che per me rappresenta uno dei luoghi di costruzione del progetto della psicoterapia ipnotica – è che lo stesso Milton Erickson, a partire per lo meno dai lavori pubblicati in Nuove vie dell’ipnosi , elaborando il suo celebre approccio di utilizzo, di fatto supera l’orizzonte “paleo” di una ipnosi sintomatologica!  Quando Erickson accetta il sintomo portato dal paziente lo fa per utilizzarlo in chiave metasintomatologica e già personologica, perché mira ad innescare processi di cambiamento di carattere olistico: oggi si ama dire anche di valenza “ecologica”. Strano che Ernest Rossi, il quale possiede una evidente formazione psicodinamica di matrice junghiana, non colga pressoché mai, nei suoi commenti (talvolta ossessivi al procedere di Erickson) questa profonda istanza anti puro-sintomatologica, che rappresenta il primo, strategico passo per una ipnosi psicoterapica, “pronta” a divenire psicoterapia ipnotica. Molte delle strategie  di intervento documentate nella casistica clinica ericksoniana sono estremamente istruttive e affascinanti, non solo  per la grazia formale, per l’eleganza essenziale del suo dire/non dire, fare/non fare. Ma anche per la ricchezza dei presupposti psicodinamici che sottendono (anche al di là della consapevolezza di Erickson stesso). Erickson fa pochi riferimenti teorici ai modelli psicodinamici. Tuttavia, se si legge la biografia, la sua formazione risente molto dell’addestramento psicodinamico. Resta il fatto che utilizzando il sintomo egli ci indica la strada per “andare a cavallo” della personalità del paziente, accettandone ritmi e direzioni. Il che è in nuce pura psicoterapia (come avevo già evidenziato nella relazione al nostro ultimo Convegno Nazionale a Firenze).

 

E dell’integrazione cosa mi dici?

Vi accennavo poc’anzi, riferendomi al paziente. Ci sono dei pazienti che presentano o un quadro personologico o sintomatologico che rende opportuno un approccio di natura psicodinamica “classica” - come può essere classico un approccio psicodinamico  intelligente oggi, quindi in modo “non classico”. Ci sono poi dei casi che presentano quadri personologici invece più adatti o compatibili con un approccio psicoterapico ipnotico. Va da sé che quando parlo di aspetti personologici mi riferisco ad una attenta indagine sui meccanismi di difesa prevalenti nell’economia sintomatologica del paziente. Quando Bloom diceva, sempre nel nostro Congresso di Firenze, che il paziente che si rivolge all’ipnosi è un face-saving patient, uno che vuole salvare la faccia, coglieva un dato clinico vero. Qui il salvare la faccia rinvia a bisogni denegatori profondi ingestibili entro metodiche psicodinamiche tradizionali perché non rispettose, non genuinamente rispettose, di tali bisogni.  In questi casi la psicoterapia ipnotica viene da me impiegata secondo il modello neo-ericksoniano che la Scuola ha accolto. La differenza per me è che io faccio quelle cose vedendo e pensando anche ad altro (ma sono certo che tutti noi pensiamo sempre anche ad altro: cioè siamo sempre un po’ oltre i nostri stessi modelli). È come se la psicoterapia ipnotica fosse un grosso contenitore, molto flessibile, e qui do perfettamente ragione a  Mosconi. La clinica della psicoterapia ipnotica è sufficientemente ricca da espandersi, da possedere  una sua autonomia. Non è vero che io come psicodinamista utilizzo la psicoterapia ipnotica come puro strumento, come se fosse il minus dentro al maius. Non è proprio così perché il grosso limite della tradizione psicodinamica è di avere a sua volta scotomizzato aspetti della fenomenologia comunicativa (si pensi solo a linguaggio metaverbale) e delle modificazioni (possibili nel setting stesso) degli stati di coscienza, che possiedono una rilevanza notevole ai fini stessi della comprensione-“cura” del disagio psichico.  E, forse, credo che un po’ tutti noi a un certo livello certe cose le “capiamo” dopo averle sperimentate a livello psicofisico e dentro una stato di coscienza relativamente alterato. Ho potuto vedere clinicamente gli aspetti psicodinamici del semplice rilassamento ipnotico. Come la persona attraverso la semplice esperienza dell’abbandonarsi a nuove percezione del corpo, dentro il contenitore relazionale altamente protettivo del rapport, ricavi nuove, inedite informazioni su di sé, in genere attinenti ad una più positiva immagine di sé, o all’incontro con parti più stabili e “capaci” del Sé.

 

In questa ottica come si articolano la remissione sintomatica e un cambiamento più profondo nella persona?

La guarigione dal sintomo apre un elemento di coscienza, di consapevolezza, sul quale si può inserire poi una narrazione psicodinamica. Io ho casi con i quali parto con un approccio ipnotico ad esempio una fobia semplice. In questi casi uso spesso un approccio ipnotico classico, come quello ad esempio della desensibilizzazione nel contesto estremamente accelerante della trance. Succede però  che la persona faccia  una duplice esperienza, che è quella di liberarsi dal sintomo, ma anche di riflettere su quello che è accaduto.  A questo punto il commento alla psicoterapia ipnotica non è più la psicoterapia ipnotica. E non perché ci sia una cesura qualitativa. Se così fosse avrei condotto una pessima terapia ipnotica. Avrei cioè trattato il sintomo …credendo che si trattasse solo di un sintomo. No. Vi è uno scivolamento quasi fisiologico ad un livello più complesso, perché diviene possibile guardare all’accaduto alla luce di una indagine più sottile di natura emotiva, affettiva, cognitiva: nel momento in cui io e il paziente riflettiamo su tutto ciò siamo all’interno di un territorio psicodinamico generato dall’esperienze ipnotico-psicoterapica.  Ci sono casi invece in cui parto dall’approccio psicodinamico e passo all’approccio ipnotico per la persistenza di alcuni quadri sintomatologici (soprattutto quelli concernenti percezioni alterate del sé corporeo) o di fronte a recrudescenze sistematiche di meccanismi denegatori o, ancora, di fronte a soggetti “recitanti” la parte del “dopo tutto questo tempo ho capito che non succede niente”). La risoluzione sintomatologica, in questi casi, è spesso veloce e anche impressionante perché la persona stessa riesce a fare quello che aveva intuito di poter fare  in modo  però ancora  puramente intellettuale. “Paralizzando” queste pregresse abitudini intellettualistiche attraverso il decentramento verso la trance o l’accorto utilizzo di metafore isomorfiche al quadro esistenziale del paziente, si ottengono risultati clinici di tutto rispetto. In altri casi l’approccio è quello della nostra scuola, che io identifico clinicamente nella “eredità  Erickson”. Siamo neoericksoniani perché siamo un po’ più critici di lui: l’utilizzo del sintomo, l’accettazione delle modalità del contratto che ti chiede il paziente. Il non commentare, un atteggiamento non interpretativo, il riandare di più a delle esperienze private, il non chiedere al paziente di raccontarti la sua esperienza interiore, anzi di non raccontarla neanche al suo io conscio.

 

Allora tu avresti individuato tre possibilità di trattamento che includono l’ipnosi. Due momenti quasi contigui alla tua pratica psicodinamica: l’ipnosi  prima o dopo. Infine una psicoterapia ipnotica diciamo così “pura”.

Sì, anche se il mio modo di “concludere” un trattamento contiene sempre una indicazione, che penso delicata e rispettosa, alla possibilità di un approfondimento psicodinamico, tutte le volte che nel corso del trattamento stesso siano emersi nel paziente stili introspettivi adeguati. La cosa che mi fa piacere constatare è come non di rado lo stesso paziente si renda conto di queste nuove capacità che talvolta può sfruttare attraverso un suo percorso anche autonomo di autoriflessione. Accade, per citare le parole di una giovane paziente, che ci si renda conto che “c’è qualcosa di più di quello che è successo”, o che in quello che è successo c’era qualcosa di più di quello che pensava.

 

Esiste un’altra via che combina l’applicazione della psicoterapia ipnotica e di procedure che potrei chiamare “espressive”, secondo quell’articolo di Wallerstein che ho recensito sulla Rivista. Secondo te questa combinazione può essere armonica o può incontrare zone di attrito, come alcuni temono.

Non condivido questo timore che mi sembra scolastico, non clinico. Sto lavorando alla stesura definitiva di un modello epistemologico interattivo per far confluire in una ipotesi che è neutra rispetto alle macro opzioni disciplinari della biologia, della  medicina, e della psicologia, le varie ipotesi psicoterapiche. In questo modello non si parla più di “momento” psicodinamico, “momento” ipnotico e così via. Non ha senso. Ha senso per chi è solo dentro una tecnica. Invece si può e si deve parlare di “approccio” psicodinamico, “approccio” psicoterapico ipnotico. Noi abbiamo invece la tendenza a mantenere una concezione giustappositiva, che è irrispettosa innanzi tutto della complessità, dell’intreccio di aspetti espressivi e supportivi entro tutte le pratiche psicoterapiche, psicodinamiche incluse.

Più serio è il problema : che rapporto c’è tra trance e verbalizzazione? Ma questo va gestito come problema di stato dell’arte. È qualcosa che uno risolve nel contesto diretto con quel preciso paziente. Forse io sono avvantaggiato perché la psicoanalisi usata da me non è mai stata interpretativa. La verbalizzazione non è una interpretazione. L’atteggiamento non interpretativo potenzia al massimo le capacità dell’io del soggetto. Questo l’ho imparato seguendo Massone agli inizi. In questo senso, paradossalmente, credo di essere, come forse lui, un “ortodosso” freudiano. Freud dice che occorrerebbe avanzare l’interpretazione un attimo prima che ci arrivi il paziente, per cui l’interpretazione è conclusiva di un processo che è già intrinseco. Bene, dico, se sta per arrivarci, perché non lasciarlo arrivare?  Potenzio questi processi interpretativi del soggetto, commentando tutte le discrepanze rilevabili umanamente tra quello che lui dice e quello che fa, tra quello che pensa di sé e quello che comunica di sé. Con questo approccio le verbalizzazioni possono tranquillamente trasformarsi in comunicazione ipnotica.

 

Questo è il momento di chiedere anche a te una definizione di insight.

Lo stile interpretativo confina l’io in una curvatura un po’ intellettualistica e/o razionalizzante.  L’insight non è pressoché mai una interpretazione. O meglio, l’insight che segue una interpretazione è spesso, e nella migliore delle ipotesi, una riorganizzazione del campo cognitivo di matrice dissociata, perché troppo schiacciata sul versante intellettualistico.  L’interpretazione che produce l’insight è sovente un commento banale e casuale. Ho vissuto questo sulla mia pelle in formazione e lo ritrovo con i miei pazienti che mi dicono: sa quella volta che cosa importante che mi ha detto. Nove volte su dieci è un commento a latere rispetto a una cosa che mi sembrava importante. L’insight è un fenomeno che va lasciato accadere, non da perseguirsi. Se l’analista persegue l’insight, ottiene una generalizzata intellettualizzazione del processo di autocomprensione del paziente. L’insight è un fenomeno esperienziale, globale, olistico attraverso il quale la persona di colpo o si vede secondo una nuova prospettiva, che  prima non era visibile, oppure coglie di sé qualcosa che era inconcepibile prima. Io ritengo che qualsiasi buona psicoterapia produca anche come side effect un risultato del genere. Erickson stesso descrive dei fatti in cui la persona si comporta come se fosse successo questo, anche se non lo elabora in termini coscienziali.

 

D’accordo per l’insight come evento esperienziale. Se l’insight non va perseguito, va però raccolto, evidenziato, sottolineato, o no?

Se lo evidenzi e lo sottolinei, puoi però inavvertitamente entrare  in una tecnica suggestiva. E questo, infatti, è ciò che spesso, nella massima buona fede, fa l’analista, commentando, evidenziando, sottolineando quell’autocomprensione di sé (insight, appunto) comunicata dal paziente. In questo modo, però, l’analista, involontariamente, introduce un suo commento, veicola costrutti linguistici non solo connessi all’esperienza del paziente ma anche e, talvolta, soprattutto alle sue griglie teoriche. E’ impressionante, leggendo la letteratura  analitica sull’argomento, notare come nei resoconti clinici è sempre l’analista a definire l’insight del suo paziente. Al punto che, se mi è permessa una battuta, potrei tornare a rispondere alla tua precedente domanda: cos’è l’insight? Dicendo: l’insight è ciò che l’analista dice di alcune comunicazione autoreferenziali del suo paziente.

Ecco, io penso che se l’insight è, come dovrebbe essere, una sua esperienza di sé allora qualsiasi commento, per essere metodologicamente corretto, non può che esprimersi nella forma di un rephrasing empatico, secondo un asse teorico molto vicino alla clinica rogersiana e alle geniali intuizioni di Kohut.

Evidenziare l’insight, in altre parole, significa rinviarlo al paziente affinché, risentendolo nella nostra versione, lui, se vuole, lo riapprofondisca.

 

Puoi spiegare meglio in che senso il raccogliere e sottolineare i momenti di insight raggiunti dal paziente può divenire suggestivo?

Proprio nel momento in cui raccogli, rilevi, evidenzi l’insight, lo selezioni tu, in quanto analista. Tale selezionamento di significati, lo ribadisco, non esprime solo le capacità di ascolto dell’analista, ma anche le sue griglie interpretative che quell’ascolto guidano. A meno di credere ancora ingenuamente alla mitologia rozzamente empirista di un Freud che ci presenta l’inconscio dell’analista come un fedele trasduttore dell’inconscio del paziente. La fedeltà di tale trasduzione si è mostrata siffatta che oggi abbiamo una babele di trasduzioni di significati.

L’aspetto suggestivo della psicoanalisi risiede nelle credenze (o meglio nelle “intime certezze”) che l’analista agisce per via interpretativa e controtransferale  col paziente. E questo massimamente là ove si trova proprio a commentare quei momenti delicatissimi che sono le esperienze di insight. Anche Erickson faceva queste cose. Appunto, interveniva scientemente suggestionando il suo paziente commentando in continuazione e con finalità ristrutturante, rassicurativa, rinforzante dell’Io le sue esperienze ipnotiche. La differenza sta nel fatto che Erickson sapeva e voleva fare ciò che stava facendo, laddove Freud pretendendo il massimo di neutralità e asetticità conoscitiva reintroduceva elementi altamente e potentemente suggestivi nella comunicazione col paziente. Penso però che dobbiamo a Freud l’idea o, meglio, l’obiettivo metodologico più importante della psicoterapia contemporanea: quello di far sì che, nel contesto della relazione terapeuta-paziente, la suggestione si mantenga nei termini dell’umano ovvero rimanga nella esatta misura in cui è il transfert del paziente stesso a generarla. Si tratta cioè di mantenere la suggestione nei termini stretti di  dimensione inevitabile  e legittima della comunicazione umana. Ora lo psicoanalista, a mio parere, è tale se e solo se  mantiene la suggestione dentro i livelli minimi della comunicazione, lasciando al paziente ogni possibilità e diritto di eccedere, per i suoi bisogni e conflitti psicologici, tali livelli. Tutto ciò che eccede è ipnosi. In questo senso sono perfettamente d’accordo con Erickson quando rileva il carattere ubiquitario dell’ipnosi. È vero. Solo che Erickson non si rendeva conto che esiste anche una dimensione dell’ipnosi che è conoscitiva.  Ma questo è un discorso forse troppo tecnico per la nostra intervista.

 

La domanda che già prima volevo farti è proprio questa: l’ipnosi è solo suggestiva? Io basandomi non tanto su una teoria, ma sull’esperienza che rilevo con i miei pazienti, non vorrei chiamare veramente “suggestioni” le nostre comunicazioni. Noi creiamo una possibilità per il paziente di arrivare da solo da qualche parte che non è dove l’avremmo portato noi. E questo perché le nostre suggestioni non suggeriscono niente, sono delle cornici, vuote, a volte molto ben fatte, in cui loro continuano a metterci delle cose.

Sono largamente d’accordo con te. Ma io direi di più. Queste cornici non sono completamente vuote. Il terapeuta comunicando le sue metafore è costretto a fare una ipotesi di natura eziologica su alcuni conflitti di personalità del soggetto, quindi a pensare in termini psicodinamici. L’errore di Erickson, o se vogliamo, la sua “svista selettiva”  è quella di non cogliere gli elementi psicodinamici dell’ipnosi, così come molti psicoanalisti non vedono  la suggestione che c’è in uno stile interpretativo. Perfettamente d’accordo con la tua impostazione.

 

Ritornando alle diverse modalità in cui si struttura il tuo intervento clinico, vorrei chiederti  se pensi che nella forma che tu chiami psicoterapia ipnotica “pura” o “secondo la nostra Scuola”,  si categorizzino gli interventi prevalentemente focalizzati su un sintomo, o anche i trattamenti con primarie finalità conoscitive. In questi casi effettivamente l’approccio psicodinamico può passare attraverso un percorso di metafore pensate secondo un preciso progetto del terapeuta.

Sono d’accordo. Quanto dici, mi permette di chiarire meglio quanto dicevo su Erickson, che io identifico con l’orientamento della nostra Scuola.  L’utilizzo della relazione centrata sulla trance - questa è per me la definizione che accetto di psicoterapia ipnotica – come  occasione di dire delle strutture narrative che aprono delle possibilità, delle visioni alla persona. Ed è quello che in sintesi si trova nelle opere di Erickson. La struttura metaforica è una struttura interpretativa. Che possiede però il vantaggio di lasciare sempre la parola, perlomeno, l’ultima parola al paziente.  Resta il fatto che possiede sempre una sua originale dimensione suggestiva.

 

“Suggestiva” tra virgolette. Possiamo metterlo così?

Sì, sì. Questa è la mia deformazione, perché in epistemologia suggestione è un termine molto affine a quello di credenza, cioè di un asserto non completamente giustificato o giustificabile. E però usato come se fosse giustificato. Una certezza non giustificata. Ci sono epistemologi molto radical oggi i quali dicono che il fatto che c’è di fronte a noi un tavolo è una credenza. È meno banale di quanto sembri. Vuole dire: non c’è esperienza senza concetti, e i concetti sono ciò che permettono l’esperienza, non ciò che deriva dall’esperienza.

A dire il vero, questo sono cose vecchie, almeno dopo Kant. Ormai noi tutti sappiamo che le nostre reti teoriche  ci permettono di “acchiappare” non tutti i fatti, ma solo quelli sufficientemente grossi da essere catturati. Così che reti più fini acchiapperanno fatti più fini. E tutti, allo stesso modo, dovremmo rammentarci, come Orazio, che ci sono più fatti in cielo e in terra di quanti le nostre reti ne possano acchiappare. Fuor di metafora: dobbiamo sempre tenere a mente lo scarto tra la realtà della sofferenza psichica e le nostre modalità di comprenderla e modificarla. Tenere a mente questo scarto è tutt’uno con il rispettare in modo radicale l’alterità del paziente e quindi il suo diritto ad essere capito a partire da lui/lei.

 

Vogliamo tornare a parlare di come si strutturano le terapie che tu fai?

Due incontri settimanali, in qualche caso anche soltanto uno. Secondo più di uno psicoanalista americano: da Gedo a Gill a Schafer,  ciò che fa la psicoanalisi è l’atteggiamento psicoanalitico, non le sedute. Questo mi sembra una rivoluzione. È il modo in cui ti rapporti, le cose che dici, non dici, i silenzi, quello che prendi in considerazione. Questo si esplica idealmente in due incontri. Qualche volta, sempre su richiesta del paziente, una seduta settimanale di una ora e mezza, proprio in quei casi in cui vi è il desiderio della verbalizzazione e il desiderio della esperienza ipnotica. In genere l’accordo è questo: la prima mezz’ora è a disposizione per dire tutto quello che si sente di dire. Questo mi serve moltissimo poi per l’induzione. L’ora seguente, a libera scelta del paziente, sempre però esplicitata all’inizio della seduta, è dedicata alla trance o ancora alla verbalizzazione. L’unica regola è che la fase della induzione ipnotica appartenga alla seconda parte della seduta. In genere, poi ci sono sempre le eccezioni, non ha senso far verbalizzare una persona che esce dallo stato di trance. Per prima cosa gli si fa perdere alcuni effetti psicosomatici importantissimi.

 

Anch’io ho sempre pensato questo, ma per attenermi alla flessibilità e all’aderenza a ciò che accade in terapia, ho dovuto accettare che alcuni pazienti particolari, di solito quelli  per nulla  naïf, pazienti orientati in senso psicologico, magari operatori del campo, potessero soddisfare un piacere grande di prolungare lo stato di trance mentre parlano di quello che hanno sperimentato, e riescono anche a sviluppare un pensiero “diverso” di fronte a questa esperienza. Naturalmente bisogna stare attenti che questo accada nelle condizioni migliori per il paziente e non sia dannosa all’esperienza inconscia in sé.

Nella mia esperienza di docente della scuola mi sono accorto anche che è possibile usare l’ipnosi per comunicare concetti in stato di trance.

 

Certamente. Tornando alla nostra traccia, sempre brevemente quali sono per te le caratteristiche principali che connotano la relazione terapeutica?

Risposta veloce. Rogers: l’accettazione totale incondizionata del paziente. Non posso pensare di poter fare questo lavoro senza essere in una relazione profondamente comprensiva verso il paziente che ho di fronte. Sono così d’accordo con Rogers che vorrei andare oltre a questa espressione che mi sa di pretesto. Non si tratta dell’accoglienza degli extracomunitari. È semplicemente una condivisione umana, è riconoscere il tuo patologico, è uscire da una dimensione di potere. L’altra caratteristica essenziale, ancora con una parola. È il rispetto di cui ho parlato poc’anzi. Da ultimo: empatia: come capacità di sentire, senza alcuna pretesa ultraintimistica di tanta psichiatria fenomenologica, lo stato emotivo-affettivo dell’altro, come capacità di riconoscerne il bisogno specifico nello specifico momento del setting.

Questa è l’essenza della relazione terapeutica.  Ovviamente, tutto ciò diviene problematico, ambiguo, contraddittorio e, in parte rischioso, al di fuori della corretta comprensione del transfert. E però, è al tempo stesso vero, che senza capacità di accettazione, rispetto ed empatia…nessun transfert è comprensibile e, tanto meno, gestibile. Dimensione terapeutica ed analitica, come vedi, sono strettamente connesse.

 

Quali elementi diagnostici sono rilevanti nell’inquadramento iniziale del paziente: una diagnosi secondo DSM IV, o che altro?

È fondamentale la distinzione di tre categorie psicopatologiche: psicosi, nevrosi, borderline. Poi l’approccio psicoanalitico è biografico, narrativo. Anche se si può dire che il DSM IV è diventato, come rammentava scherzando anche Massone,  un catasto, io proprio perché non  psichiatra, lo considero una lettura a suo modo “formativa”, proprio perché mi mette in contatto con un orizzonte concettuale che mi affascina…per la sua distanza dal mio. In particolare in quel suo scommettere, al tempo stesso scettico e disperato, sulla possibilità di una possibilità diagnostico-classificatoria che prescinde da qualsiasi impegno eziologico e più radicalmente da qualsiasi immagine epistemicamente forte del disagio mentale e della sua natura.

 

Con quali criteri impieghi l’ipnosi in un paziente che si rivolge a te. Usi l’ipnosi appena puoi, naturalmente tenendo conto del paziente?

Non la uso appena posso. Come del resto non faccio nulla appena posso. Questo vorrebbe dire che sostanzialmente so sempre cosa fare, cosa va bene. La decisione è legata al singolo paziente, propendo per l’ipnosi in rapporto alla intensità del sintomo, nei casi di fobia , ansia, attacchi di panico e, più recentemente, di fronte a significative dispercezioni somatiche. Più il sintomo è sopportabile più la proposta è psicodinamica – a condizione che il paziente evidenzi chiaramente alcune spontanea tendenze: a narrarsi, a riflettere su di sé con un certo distacco, e curiosità e desiderio di capirsi, ad assumersi una certa responsabilità verso le proprie scelte di vita. Ma proprio in questi ultimi due anni ho avuto la possibilità di allargare l’uso dell’approccio psicoterapico-ipnotico a situazioni di “sopportabilità sintomatologica” con buoni risultati…psicodinamici.

 

C’è un tipo di “sintomo” che non rientra nelle categoria che hai menzionato, ma che rappresenta a mio parere una indicazione alla ipnosi. Lo chiamerei un “sintomo mentale”. Per esempio, il paziente che per precedenti esperienze, cultura, cattive letture è portato ad un pensiero ripetitivo, specialmente in senso psicologico, anche senza essere un addetto ai lavori. Casi in cui c’è un pensiero stereotipato, a volte anche acculturato, però ugualmente rigido.  Il “sintomo”, quel qualcosa che impedisce che succedano cose nuove, è una costruzione che il soggetto si è rappresentata e da cui non riesce ad uscire. In questo caso l’ipnosi può dare un allargamento dello spazio mentale.

 

Sono d’accordo con te, mi riconosco in pieno. Qui secondo me l’ipnosi è elettiva, proprio perché quelle stereotipie verrebbero rinforzate molto di più da un atteggiamento riflessivante. Anzi queste sono state le prime esperienze che ho fatto e sono state per me sufficientemente persuasive della scoperta dell’ipnosi, di quello che gli ipnotisti hanno scoperto.

 

Vorrei ora un commento su quella delicata fase della psicoterapia ipnotica che è la formulazione dell’obiettivo.  Ripeto a tutti questa domanda, perché la trovo fondamentale per dare una idea del respiro psicoterapico che il terapeuta concede ai suoi interventi. Escludendo gli interventi classici sintomatici dell’ipnosi, fobie, crisi di panico ecc., a volte capita di leggere in letteratura la descrizione di casi clinici in cui vengono riportati obiettivi molto circoscritti cui pare che il terapeuta creda, ad esempio, la decisione se cambiare lavoro, lasciare o no un partner. È possibile iniziare, e magari a breve termine concludere, una terapia su questi presupposti? Nella mia visione è possibile accettare, “utilizzare” certe richieste solo per lasciare che il paziente salvi la faccia, pronti a condurlo in un terreno più spazioso per le sue decisioni appena possibile. Tuttavia non tutti sembrano della mia opinione. Ricordi l’intervista ai Barretta in cui sostenevano che il paziente senza un obiettivo preciso è secondo loro un dilettante, che non può essere accettato in terapia?

Sì, ricordo. Loro poi onestamente attribuivano il compito di affrontare questa problematica agli psicoanalisti, cui loro stessi inviavano i pazienti. Io accetto queste richieste con questa domanda: bene, l’obiettivo è di decidere se lasciare il partner. Però prima vorrei sapere perché non riesce a decidere da solo. Questa risposta accoglie, ma sposta subito il problema su un altro piano e apre altre prospettive. Lo spostamento dell’obiettivo nel corso della terapia è un fenomeno normale in psicodinamica.

 

Un cenno sulla durata media delle tue terapie.

 

Dai sei mesi ai tre anni. Più l’approccio ipnotico è prevalente, più i tempi si accorciano. Devo riconoscere che non vi è una correlazione diretta tra durata e efficacia. Ponendosi in chiave psicodinamica non è detto che la durata lunga è migliore della durata breve. Va detto, però, che la dimensione tempo, nel contesto di trattamenti analitici più strutturati e delle patologie affrontate in essi si dilata sensibilmente.

 

Vuoi dire qualcosa sulla fine della terapia?

La decisione spetta sempre al paziente. Quando il paziente esplicita la sua intenzione di finire, il mio atteggiamento è, indipendentemente dalla valutazione, quello di accettazione della sua idea, non solo neutro, sottolineando che c’è    qualcosa di molto positivo in questo. Come contropartita chiedo in genere di aspettare due tre settimane, durante le quali continuare a vederci parlando di tutto quello che il paziente ritiene utile. Alla fine di queste due o tre settimane, se il paziente conferma la sua intenzione a terminare la psicoterapia, io la accolgo, la rinforzo, ne evidenzio gli aspetti positivi, concludendo con la mia piena disponibilità a rivederlo/a per qualsiasi necessità o motivo.

Mi fa piacere osservare che la stragrande maggioranza dei pazienti che, pur avendo conseguito notevoli progressi, aveva interrotto la terapia in modo che, dal mio punto di vista, pareva prematuro ha ripreso in tempi diversi la terapia, con risultati decisamente buoni.

TOMMY. UNA FAVOLE PER GATTI ADULTI. ESPERIENZA DI PSICOTERAPIA IPNOTICA

Dott. Ivano Lanzini

Un racconto clinico.

 

            Quello che segue è un racconto clinico: un racconto nato all’interno ed in forza di un’esperienza clinica piuttosto complessa, durata più di un anno  e mezzo e ampiamente caratterizzata dall’approccio ipnotico in prospettiva neo-ericksoniana. Di tale esperienza riteniamo opportuno rendere conto in un momento successivo, in modo da consentire al lettore di poter leggere con la massima libertà la storia di Tommy, lasciandosi così coinvolgere emozionalmente senza alcun bisogno interpretativo. Per ora, ci pare doveroso ringraziare il nostro paziente non solo per averci permesso di esplicitare sequenze immaginative e creative di cui noi stessi eravamo inconsapevoli. Ma soprattutto per essere stato lui, al termine di una particolare seduta, a farci notare come i percorsi metaforici tracciati (nella condizione della trance ipnotica) nelle precedenti quattro sedute sembrassero tra loro collegati da una trama sottile e coerente “come un racconto, bello. Che sarebbe bello riascoltare tutto assieme. Manteniamo ora una promessa allora solo timidamente accennata, dando forma compiuta a quel racconto che, in contesti differenti ma con analoghe situazioni emotive, abbiamo fatto leggere a qualche altro paziente con risultati positivi.

 

 

 

Tommy. Una favola per gatti adulti.©

 

            Ci fu un tempo in cui Tommy si sentì veramente felice. Fu quando, da poco nato, poteva frugare con il suo piccolo muso,  profilato da delicate mucose color rosa, tra il soffice pelo di mamma gatta, e trovare, con immancabile precisione , la sua tettarella preferita. Per poi stare lì, a godere, per un tempo senza tempo, del sapore e del tepore del latte dolce e profumato, aspirato con  ritmo voluttuoso . Che si scandiva all’unisono con quello seducente delle fusa della madre, che di tanto in tanto lo coccolava con leccatine e carezze.

            Sì, quello fu il tempo della gioia e della felicità. Della quiete, della sicurezza. Il tempo in cui risuonava nel suo cuore un senso, ingiustificato e tuttavia certissimo,  di fiducia nel mondo.

            Ma quel tempo durò poco. Poche settimane. Forse un mese … non rammentava più bene ormai. Tanto le cose erano drasticamente cambiate!

            Oggi, Tommy è letteralmente disperato. Arrabbiato. Esasperato. E questo a causa proprio di quella madre, un tempo così premurosa e attenta. E che adesso a stento sembra prendersi cura di lui, spesso trascurandolo, al punto da scordarsi di preparargli la cena o la colazione. “Pare proprio che non conti più niente per lei” – si diceva amareggiato Tommy. “Pare proprio non vedermi nemmeno; come se le dessi fastidio o le fossi disgustoso. Possibile che sbagli sempre il mio posto a tavola? Possibile che non si accorga di quando entro o esco dalla tana? Possibile che quando mi parla, non mi guardi mai in viso o abbia così spesso gli occhi rivolti al cielo, a mo’ di rimprovero? Possibile?!” continuava a rimuginare cupo e talvolta livoroso, Tommy.

            Tutto questo andò avanti per mesi. Fino a quando Tommy non ne poté più. La rabbia da disperazione prese il sopravvento e, non avendo più nulla da perdere, se non la costante frustrazione di un riscontro d’amore che mai arrivava, lasciò la casa di mamma gatta e si decise ad attraversare il bosco. Incurante dei pericoli cui sarebbe andato incontro. Il bosco, infatti, era il luogo proibito per eccellenza: solo i gatti adulti e di lunga esperienza della vita potevano attraversarlo e, persino loro, non senza timore e cautela.

            Ma Tommy si sentiva adulto. O almeno, così diceva e pensava tra sé  e sé. Un po’ per farsi coraggio, un po’ con l’orgoglio di chi già ne ha passate di cotte e di crude: “esser sopravvissuto a una mamma come la mia è di sicura prova di coraggio indomito, di forte tempra e di grande forza d’animo” – concluse tra sé e sé, forse per rassicurarsi, proprio sul limitare del bosco.

            Tommy su quel limitare si fermò per qualche istante, affascinato e impaurito dalla massa compatta di piante e colori che si presentò dinanzi agli occhi. Sollevò il muso, annusò intensamente, a piccoli tratti e in diverse direzioni, protese le orecchie: tutto sembrava calmo. Tranquillo. Rassicurante. Col cuore in gola si mosse. Lasciò il chiarore e la chiarezza delle cose, e il tepore dell’aria. Ed entrò nella penombra: nel luogo dalle forme incerte e dell’umidità sospesa tra terra e cielo. Per qualche istante ebbe la sensazione che tutto fosse sfuocato e indefinito attorno a sé. Poi, dopo pochi minuti, pochi passi, pochi piccoli salti … il bosco cominciò a mostrarsi. E Tommy rimase incantato. Una circolare esperienza di colori lo avvolgeva: colori intensi e sfumati, strappati e allungati, stirati e accorciati, ripresi, scalati, arpeggiati: proprio come meravigliose pennellate che solo un bravo pittore può appassionatamente stendere su una tela, una tela grande e a cerchio. Tanti e svariati colori: la gamma dei verdi, anzitutto, seguiti dai terrosi marroni, digradanti in sfumature nocciola, arancio, rossiccio; intervallati da lampi di giallo e punti d’azzurro. E poi gli alberi (erano betulle? Abeti, larici, faggi, platani? Tommy si chiedeva) e le loro forme a volte dense e piene, altre rarefatte e quasi vuote – almeno così pareva correndo e saltellando, come Tommy si trovò involontariamente a fare, quasi senza accorgersi. E dove andare ora? Si chiese Tommy proprio mentre gioiva di quel suo saltellare? Dove trovo un sentiero? E’ un sentiero questo spazio tra questi alberi? O sono io che lo vedo come tale? Ci sono davvero sentieri nel bosco, o sono io che li voglio vedere? Che cosa fa di un sentiero un vero sentiero o una semplice successione di spazi senza meta né scopo?

            Tommy si fermò. Attento e riflessivo. “C’è qualcuno nel bosco?” “Cosa si muove là in fondo, in quella che pare una piccola radura? “ Tommy si acquattò e con  tipica pazienza felina, rimase in attesa, immobile, le vibrisse tese come aghi di riccio. Sentì il fruscio di un passo felpato. Un passo regolare. Quasi calmo, si disse. Scorse due occhi gialli da gatto. Seguiti da zampe da gatto. Da corpo e coda da gatto. “Un gatto” concluse Tommy, con stile deduttivo. “Già ma chi sarà mai? Non ricordo di gatti che hanno recentemente lasciato tana per il bosco”. Si acquattò ancor di più, lasciando che la forma si avvicinasse così da metterla bene a fuoco. E, contro ogni aspettativa, oltre ogni più incredibile speranza e desiderio… riconobbe, con la precisione che la memoria ci offre quando amiamo, la figura di suo padre. E con un unico balzo, del cuore e delle zampe, saltò fuori dal piccolo cespuglio e gli miagolò: “Ma sei tu?!”. Il grosso micio fece a sua volta un balzo all’indietro, a metà tra lo sconcerto, la rabbia e lo spavento. Velocemente si riprese. Mise a fuoco la fonte del miagolio e “Ma sei proprio tu, Tommy?”. “Sì’, papà. Sono proprio io, tuo figlio. Vivo e vegeto”. “E non sei ancora troppo giovane per addentrarti nel bosco, da solo per giunta?! E tua madre dov’è?”. A questa domanda, Tommy cambiò d’umore: s’incupì, abbassò le orecchie ad ali d’aeroplano, ed uscì in un miagolio lamentoso: “la mamma probabilmente è a casa, persa tra i suoi pensieri”. “Come a casa? Come probabilmente? E che vuol dire ‘persa tra i suoi pensieri’?” “Vuol dire, proseguì Tommy, che me ne sono andato. Che non  voglio sapere più niente di lei”.

            Papà gatto si accorse di come in Tommy convivessero rabbia e dolore, rancore e nostalgia, orgoglio e disperazione. Si avvicinò a suo figlio e “su racconta” - gli disse con fare gentile e serio al tempo stesso – “cosa è accaduto, da spingerti a tanto?”

            Tommy, dopo un attimo di esitazione e a stento trattenendo lacrime e voglia di coccole, si accucciò e iniziò a raccontare di come mamma gatta fosse cambiata, dopo le prime settimane. Di come non si curasse più di lui, di come pareva proprio che non volesse neanche più vederlo. “Pensa papà: a tavola non mi guarda; se parlo, volge il muso da un’altra parte; non ricorda mai dove tengo le mie cose; non si accorge nemmeno se sto entrando o uscendo dalla tana o se ho in bocca una coscia di topo e un’ala di passero; se mi sono ben ripulito e lisciato il pelo o se sono tutto sporco di terra e fango. Insomma, se un giorno mi avesse detto: ‘caro Tommy, sono stanca di te, non voglio più vederti, vattene’” ecco, sarebbe stato quasi meglio. Sicuramente più coerente con il suo comportamento. Non ne potevo più, papà credimi”. Concluse Tommy, avvicinandosi involontariamente alla spalla del padre.

            Papà gatto lo guardò commosso. E anche orgoglioso di quel figlio, che era cresciuto così determinato e forte  senza la sua presenza – così come vuole da sempre la sacra legge dei gatti. Si avvicinò a Tommy ancor di più, lo annusò proprio all’altezza del muso, ora profilato da mucose nero-azzurre (come quelle di sua madre, pensò, piacevolmente stupito del ricordo). Sapeva che non era ancora giunto il momento di parlare.

            “La odio, papà. La odio davvero. Come ha potuto trattarmi così. Fino a farmi pensare che fosse colpa mia. Come se in me ci fosse qualcosa di sbagliato. Capisci il dolore, papà. Lo sconcerto. Per mesi ero lì a chiedermi:’forse, se la mamma non mi guarda, se non si cura di me, forse è perché l’ho delusa. Forse non sono il micio che si aspettava. Forse non sono forte abbastanza. O intelligente. Ho fatto di tutto per attirare la sua attenzione e meritare un gesto, una parola, uno sguardo. Ma niente…”

            Fu proprio a questo punto che papà gatto sentì che era arrivato il momento: preso il muso di Tommy tra le sue zampe, lo fissò con amore negli occhi  e disse: “Tommy, figlio mio caro, capisco il tuo dolore, la rabbia, la disperazione. Capisco anche che tu possa dire che odi la mamma. E però, tesoro caro, non ti sei mai accorto…” qui, per un attimo, papà gatto, ebbe bisogno di una pausa, o la fece di proposito.

            “Vai avanti, ti prego, papà” fece subito Tommy.” Non mi sono accorto…?” “Non ti sei mai accorto – proseguì quasi d’un fiato papà gatto – non ti sei mai accorto che mamma era gravemente malata ad un occhio e completamente cieca dall’altro?”.

.. [1]

            Tommy non rammentò quanto tempo trascorse, prima di riprendersi dallo strano, avvolgente torpore in cui era precipitato.  Né suo padre poté dirglielo, perché quando tornò in sé, già non c’era più.

            Si rese conto però che quella rivelazione ebbe un impatto decisivo. Gli cambiò prospettiva. Per certi versi, addirittura, gli trasformò la vita. Di colpo, la sua mente cominciò a svuotarsi di pensieri che per tanto tempo l’avevano tormentato, anche se, con tutte le sue forze, aveva cercato di cacciarli via. Con che dolore e abbattimento aveva a lungo pensato di essere lui la causa del suo non esser guardato e curato dalla mamma. “Forse è perché sono brutto”, o “magari mi voleva più sveglio e intelligente, più pronto a capire gli ordini”, forse “se fossi più obbediente…”. Non solo. Ma anche quel costante, disperato senso di rancore, impotenza e rabbia che per tanto tempo aveva avvertito e nutrito verso sua madre iniziò velocemente a decrescere. Come il livello dell’acqua quando una diga viene finalmente aperta. E accadde poi dell’altro: un sentimento nuovo di pietà, di compassione prese a sgorgare da quelle che erano state ferite dell’anima. Rivide sua madre, ne recuperò il muso, mise a fuoco i suoi occhi stanchi, storti, vecchi e ciechi. Si avvide di come fossero popolati di ombre. E di come fosse lui fortunato a vedere la luce. E il mondo. Rammentò i colori del bosco e comprese come dovesse essere triste e vuota una vita senza l’esperienza del colore. Tornò a provare pena per sua madre. Una pena più intensa. Il suo cuore era ormai pacificato. Quella pena, per la prima volta, si trasformò in una forma particolare d’amore, mai sperimentata prima. Era contento di poter amare sua madre e più non importava se non si fosse allora sentito amato. Avvertì un delicato tepore crescergli nel petto. Ed ebbe, per un attimo, l’impressione che un vento caldo spirasse dalla parte del bosco: da dove era entrato. Si sentì calmo, sereno. E mentre, con passo deciso, si muoveva verso nuovi paesaggi da esplorare, mentre ritornava a guardarsi intorno  cercando farfalle da inseguire o topolini da mangiare, mentre i profumi dell’aria e della stagione (era primavera? Autunno?) lo inebriavano, un pensiero, delicato e ritmato lo accompagnava: “è andata così, non è colpa di nessuno; cercherò qualcuno e lo amerò di più”.

 

Un breve suggerimento…a mo’ di epilogo.

Potrebbe essere utile, specie per gli allievi che già hanno dimestichezza con le modalità induttive e con la conduzione della trance ipnotica, provare a rileggere ad alta voce il racconto di Tommy, improvvisando pause e modulando tono della voce come se si trovassero a “parlare” con un loro paziente, lasciandosi trasportare, senza alcuna preoccupazione teoretica, dalle emozioni che hanno provato leggendo il racconto. Potrebbero, in questo modo, fare l’esperienza di trovarsi a continuarlo, oppure a modificarlo in qualche parte, oppure ancora …a intuire, sullo sfondo delle immagini delineate, dei pensieri di Tommy e dei dialoghi, le esperienze di vita di cui costituiscono la trasposizione metaforica ed il commento “terapeutico”.

(la Rubrica delle Lettere al direttore è ovviamente pronta ad ospitare domande e commenti).



[1] Abbiamo recuperato questa foto,adattandola leggermente, da una delle tante dedicate ai gatti certosini reperibili in rete. Ringraziamo il suo anonimo autore, di cui non abbiamo trovato traccia o indizio.

ON GOLD & COPPER

15. INTERNATIONALER KONGRESS FUR HYPNOSE

MUNCHEN, 2. – 7 OKTOBER 2000

On Gold and Copper. Towards a New Idea of Hypnotic Psychotherapy as a Psychodynamic Form of Psychotherapy

- Beyond "techni-quality" to Psychotherapy. - Hypnotic Psychotherapy as a proper form of Psychodinamic Therapy. - On When and Why Gold may be less precious than Copper. - Abstract Title: On Gold and Copper. Towards a New Idea of Hypnotic Psychotherapy as a Psychodynamic Form of Psychotherapy. 

Dott. Ivano Lanzini

Ph.D., Psychologist, Epistemologist, Psychoanalist, Teacher of A.M.I.S.I. Vice-President of A.S.P.A.N.D.

On Gold and Copper.

Towards a New Idea of Hypnotic Psychotherapy as a Psychodynamic Form of Psychotherapy

Threefold, basically, is the goal we are aiming at through our present work:

  1. on the one hand, it concerns the urge – no longer restrainable – to develope a theoretical awarness, within the actual field of "applied Hypnosis", of the necessity of a new and definite foundation of Hypnosis as an original, though (as we’ll see later)"classical"(1) form of Psychotherapy;
  2. on the other hand, it is about the strategic (though not esclusive) psychodinamic nature of Hypnotic Psychotherapy;
  3. last but not least, it involves the overcoming of the traditional and radical opposition between psycho-analisis and the realm of psychotherapies, at least in the theoretical representation included in the famous freudian difference between the purity and nobility and rarity of Gold as compared to the triviality, the common placeness and abundance of Copper. E.G.: in the theoretical opposition between analysis, taken as a scientific way of investigation and non-analytical therapies whose therapeutical effictiveness is assumed as a (side) effect of suggestion(2).

We deem it, therefore, usefull in order to better understand (and even criticize) our effort, to divide it into three parts, each of them connected to the specific foldings of the aim above mentioned.

  1. Beyond "techni-quality" to Psychotherapy.

We like words,don’t we? They are essential to our understanding, to our framing of the world around us and within us. Putting something into words means making it actually exist. Sometimes, a word grows within our mind and comes up out of it unexpectedly, giving us a new way of looking at things. That is what happened to me, while musing upon the feeling of uneasyness I have any time I think of the way many psychologists, therapists and hypnotists who pratice professionally hypnosis consider its specificity. I came across the idea of "techni-quality", that is the assumption, still widespread in our field, that what makes of a hypnotic therapy a good, reliable, valid, powerfull, succesfull strategy of relieving mental distress and suffering is its technical quality, mainly based on the knowledge of what and how and when to do (to say, to suggest, to be silent, to choose a metaphor, to make sink in deep trance or to keep it light, or to make levitate a hand or a foot, or to push the patient back to his/her infantile past, to make him/her re-experience some of it…) something to/with the patient.(3)

This way of putting the good quality of hypnotic therapy, and, as a conquence, its "essential effectiveness", in the technique – in the way of doing something – is, in my opinion, the basic reason:

  • why, firstly, many psychotherapists still consider Hypnosis something separate from (non connected with) psychotherapy; something like a tool or a means but not something having its own theoretical dignity and relevance toghether with its own psychological specificity (4);
  • secondly, why hypnosis procedures…do not proceed, do not go over&beyond: coming out of the play on words, why the technique of hypnosis, that is "the maneuvres" to induce altered states of consciousness do not grow to the higher level of a particular psycho-therapy, remaining to the lower (the lowest at all) level of a tool to be used for pourposes which are different from the tool: remaining back to level of a mere hypno-therapy. We’d like to underline the extreme inchoerence, the inner logical, epistemological and factual serious contraddiction of a therapy which is a tecnique since a "what" cant stay in a "how"; a goal cant stay in a means; driving is not a car, not even driving a car. Let alone driving a particular car. Hypnotherapy is not psychotherapy. Not even hypnotic psychotherapy.

In order to overcome this instrumental bias, I mean the prejudice of making trance-inducing procedures the conceptual core of hypnotic psychotherapy, at the same time reducing hypnotic psychotherapy to hypnotherapy! we are now obliged to say something to prove the existence, the actual existence – though not yet seen and recognized by many (5)– of a hypnotic psychotherapy, that is a psychotherapy in which what we call hypnosis plays a role which is instrumental stricto sensu, properly, in the sense that provides a way to go to, a method (meta-odos) aimed at something else, at something which is not a "mere" hypnotic experience.

2. Hypnotic Psychotherapy as a proper form of Psychodinamic Therapy.

We think that the basic facts on which we can found both the deep, structural psychotepeutic quality of hypnotic therapy and the particular psycho-dinamic dimension of that quality are to be seen in the way in which the "rapport" takes place: in the hows&whys the therapists builds up, with his/her patient a quite peculiar and sophisticated way of communicating and being toghether. A way in which and through which:

  1. it becomes possibile, for the patient, the experience of a feeling of security and protection and easiness that gives him/her the consent, the permission to relax and enter his/her own unconsciuos mental world of images, dreams, sensations, hidden memories …;
  2. it becomes also possibile for the patient and the therapist to build up a bridge connecting the two of them (each other) in a deep, creative, authentic, caring relationship where a new restructuring experience of shareness and reciprocity gives the patient the chance of seeing, looking at him/herself, of knowing and feeling him/herself in a different, vaster, more mature way (leaving him/her, at the same time, free to do what he/she’d like to do of him/herself on the basis and as a result of that resctruturing experience)(6).

Taken up and looked through these facts, we mean from the point of view of the comunication frame in which all sort of trance inducing procedures take place, it becomes cristal clear why hypnotic psychotherapy can’t be but a form of psychodinamic therapy which on the one hand acts and works (when it works) like any other kind of dynamic therapy: through transference, self-awarness and empathy( 4); on the other hand, adds its own peculiar contribution to the possibile and credible psychological chance towards a relevant reduction in mental suffering thanks to the unique experience of a unique kind of losing our own control in the company and in the face of someone we trust (even if the reasons of that trusting are not always immediately clear).

It comes out as a logical and factual consequence that in as much as deep emotional and parent identification implying dynamics of transfert take place within the hypnotic psychoterpy peculiar setting, it is of extreme thoretical and clinical importance for the hypno-psychotherapists to know as much as possibile about what transference dynamics are and mean generally, in the wider context of unconscious processes through which psychic structures take shape; and specifically, about what those transefrence dynamics mean and how they work both in the peculiar biography of the patient and in the correspondig peculiariaty of the emotional, relational and comunicational setting phoenomenology( 7).

All this does not mean – as it still happens to be seen and heard declared by many qualified and even epistemologically carefull hypnotherapists – that hypnotic psychotherapy should be conceptualized as a sort of "integration of hypnotic techniques into psychotherapy" so as to, in the meantime, imply another connection and integration of the "knowledge and the skills limited solely to hypnosis into other deeper and vastly grater knowledge and skills of psychotherapy"(8)

We think this way of epistemologically framing the theoretical and clinical relationship between hypnotic techniques (and their use) and the psychoterapeutic setting (mainly in its psychodynamicc phenomenology) should be radically changed going the other way round. That is moving from an already critically given psychodinamic paradigm or model of human transference setting phenomenology, we should try to put into this theoretical and clinical paradigm both the knowledge and the skills and creativity of specific hypnotic techinques (no matter about their "whats and hows"), and the empirical, patient-to-patient clinically founded knowledge of their carefull, clever, sympathetic, sensible and unconscious dynamics-sensisitive employment in the going on of the treatment(9).

To put all this through metaphor: we propose to assume hypnotic psychotherapy as driving a car. Driving, since it means how to drive, where to drive with almost any and every particular vehicle does not derive its theoretical foundations from a particular car, let alone an only car called hypnotic technique.

Driving referes to and relies on the deeper, though frail konwledge of how to imagine a "where" to go, a "when&if" to go; even a how&when to change direction and destination in connection with a general idea on how an engine works and on what to do in case it won’t work (we’re here obviously hinting at what, in other plain terms, many therapists would call "tehory of mind and of mental suffering" as a basis of every serious psychtoreapeutic model of intervention).

At the same time, car driving is not like driving a car or that particular kind of cars, since you cant drive a concept. That means that to be a good driver you must know also the peculiarity of the car you decided to buy or rent. That means, still another logical consequence: there is no general, absolute (:non connected to any car at all) car driving, but different driving ways and styles each of them depending on the experience of/on specific kind(s) of cars. In other words: to be a good driver you must put yourself half the way through a bridge joining a general theory of driving and empirical, creative experience of some cars – which are not and never pure tools of your driving since your driving becomes more and more secure and elegant through those experiences .

Hypnotic psychotherapy therefore is like driving a car, obviously a set of car, or better cars of a particular car company on the twofold premise:

  1. of knowing and keeping in mind a theory of driving;
  2. of knowing and creativly using the peculiarities of driving those particular car(s).

So it’s not a matter of integrating a technique into a theory which is "ontologically" different. It’s actually applying a theory which already has got something to do with what you are dealing, adjusting its general premises to what you empirically come across while dealing with what you are dealing (with your patients)

In still different words: there is not, there should not be a sort of "lay hypnotherapy" ( 7) – a therapy "limited solely to hypnosys" for the same reason you cant drive only that car and not knowing something abour car driving. Unless you’d like to call driving a car separately: pulling up, wheel-steering, accellerating, gear-changing. Notice that the moment you are able to do these things toghether, you’ve learnt something which is not confined to the particular car you are driving.

3. On When and Why Gold may be less precious than Copper.

Qualifying hypnotic psychotherapy as a typical if peculiar form of psychodynamic therapy in the way and for the theoretical and epistemological reasons we have been here doing, renders it essential to give a new articulate (even if still roughly formalized) answer to the famous and authoritative(10) question concerning the role of suggestion within the comunicational setting of hypnotic psychotherapy.

Though much has been written on this topic, either in an aggressive or defensive way from both parties – the psycho-analytical and the hypnotic ones(11) – it still does not seem clear what might be assumed as suggestion in any sort of clinical context. Generally speaking suggestion looks like a catch-all term anybody can use any time it is necessary to point out something wrong or negative or repulsive or to be condemned in the field of therapy(chiefly in field which are not the ones we practice or love). Not only. Still widespread – even within many accurate psychologists of epistemological rigour – is the assumption (or presumption) of an inner, intimate, because structural opposition between analytical investigation techniques (from free-association to dream interpretation) and hypnotic directive&non-directive (shall we say "ericksonian"?) way of communication. So deep and profound is this opposition, that you come across quite often psychonalists and analytical therapists saying and writing that psycho-analysis, having definitely left out of its sight and method any sort of communication which might involve anything but the Ego of the patient (his/her critical skills to recognize the truth of what he/she is being told as a possibile rational explanation of the roots of his/her mental suffering), is a unique chance to put toghether knowledge and "cure": it’s not just a talking cure but it’s a truth(anything-but-the truth) telling cure: e.g. a sort of change-strategy based upon a pure rational (which doen’t mean purely rational) experience of self-knowledge in the company of someone else.

Although we partly recognize(12) that, in certain aspects and in particular moments of the "psychoanalytical treatment" something of the communicational sort above described actually happens, we cant but point out that what makes the patient "see" the truth of the analytical interpreatation, is not a rational, let alone a purely logical understanding of what is going on within his/her own mind (be it a conscious or an unconscoius one). Rather differently it’s the whole experience of his/her human with the analyst/therapist: most of all it is his/her experience of trust, confidence, "rational love" and emotional freedom in and through the relation with the analyst.

We deem it extremely important to point out the non-rational and consequently non left-sided, non word- based not even merely utterable quality and dimension of any form of psychological understanding and comprehension. We deem it essential to underline the clinically testable fact that people can hardly understand and discover the smallest "piece of truth" of their life out of the experience of a real, lasting, sincere human "contact": which is both a contact with a human being (recognised and lived as such) and a conctact that is human because respects the humanity of the person: his dignity, and freedom, his uniqueness, and overall his/her unique way of defending his/herself as long as he/she feeels it necessary – no matter wether it is reasonable to keep on doing so).

Well, we take it for reasonably certain – even if, we admit it, not yet entirely recognised from hypnotherapists lacking of rigouros psychodinamic training&experience – that trance inducing techinques (be they ericksonian or not ) are as much psychologically helpful and psychological improvement functionally oriented insofar they take place and are acted as a result or, more elegantly, as an inner sincronique consequence of the shaping, between therapists and patients, of a frame of trust, confidence and pre-verbal comprehension – which is, for certain aspects, a sort of mutual (even if not actually simmetrical) regression to infantile steps of emotional developpement; for other different aspects, it is a sort restructuring, repairing and, sometime, even redressing experience. As you surely well know from treating post tarumatic stress syndrome affected patients, abused patients or neglected patients!

We think that this particular, intense psychological climate which happens to be seen, lived through and skillfully built within the setting of hypnotic psychotherapy (toghether with its tecnicalities – not techiqualities!) must be taken as the suggestive and human, because wholly human factor or aid to overcome psychological, behavioral and psychosomatic problems and disorders.

It is difficult to deny how this climate is constantly at risk of being misunderstood, misrepresented, mistaken, misconceived and misbehaved by its partecipants. We actually recognize how important it is for the therapist, and for the hypno-psychotherapist (13) in particular to be aware of the psychological complexity of any direct emotional involvement with the patient toghether with the necessity of keeping enough distance from him/her in order to give him/her the possibility and the right not to be unconsciously manipulated through conter-trasference dynamics.

Fully aware of all this, we still cant help recognizing the importance of this particular kind of psychological involvement which is needed in order to make it possible a real trance experience, and its clear superiority when compared to the psychological and intellectualized climate of so many analytical treatements, where the purity and depth and cultural sophistication of interpretations might be brighter than gold but surely less able to comprehend [(cum-with)+ (prehendo:take, bring)= to bring someone with&within me] and partake of patient’s mental suffering, especially when it takes the form of hidden, traumatic child’s experiences or the shape of somatic symptoms or frightening fears difficult or impossible to bo spoken of or talked about&around.

We could not think of this emotional involvement as copper unless we took for gold the memory as compared to experience.The knowing as compared to feeling. The seeing as compared to touching or listening, the acting as compared to letting oneself go. That of course does not mean we do not appreciate the theoretical and even clinical importance of remembering, repeating, working through(14) Actually, we see this possible, at least not in contraddiction with the hypno-psychotherapeutic context, once recognised ad acted upon in its psychodynamic logics.

What we simply want to mean and make to everybody clear is that psycho-analytical techinques – mainly centered on investigative style and intepretative communication ways - are or might be the corrisponding techi-quality misrepresentation of psychotherapy whose presence we’ve being pointing out within the hypnotic field of psychotherapy.

Techi-quality – in other words – is the gold of a showy and gleaming though feeble and non consistent idea of psychological change we’d better leave behind our clinical shoulders, in order to follow a less brilliant and glittering but stronger path: the copperish path of a human relationship which bridges in both partners (therapists and patiens) the banks of intellectual understanding and emotional comprhension; of cultural awarness and bodyly conscience.

By doing so and flollowing this bridge, we think we could build a new way of framing the continuity/discontinuty line between analytical and non-analytical psychotherapies: a line so clear as to avoid diplomatic and useless ecletticism and so conceptually flexible as to foster a deeper understanding of the importance of mixing toghether, of alloying some the most relevant peculiarity of both parties. Which we see as already made up with different degrees of gold and copper.

Abstract

Title: On Gold and Copper. Towards a New Idea of Hypnotic Psychotherapy as a Psychodynamic Form of Psychotherapy.

The Author, pointing out in advance the necessity to overcome any short-sighted and theoretically non consitent idea of hypnotic psychotherapy as a mere separate technique non connected with the realm of psychotherapy, show relevant evidence of how and why many epistemological and clinical conflicts between psycho-analytical therapies and non-insight oriented therapies have no longer reason to go on – at least in the way they have been doing for more than a century. On this basis, the A. makes it clear the theoretical urge, for both analytical and hypnotic therapies, to build a wider and sounder technical and clinical frame in which/on which finding and founding new sounder and more reliable changing and self-awarness expandign strategies. So as to allow both gold and copper to become less brilliant and much stronger.

Bibliography

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  2. Lanzini, I. "Suggestione e conoscenza: contributi epistemologici sulla produttiva tensione tra ipnosi e psicoanalisi", in Ipnosi e Psicoterapia ipnotica, Milano, 1995, Atti X° Congrersso Nazionale A.M.I.S:i., pp. 191-95; and Lanzini, I.-Massone, A. "Tecniche ipnosuggetsive in psicoterapia: considerazione clinico- epistemologiche e medico-sociali", Ipnosi Clinica e Sperimentale, A. III, n.2, 1983, pp. 47-52;
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  7. Lanzini, I: Contributi psicodinamici alla psicoterapia ipnotica, in Quarant’anni di ipnosi in Italia, 1998, Firenze, Atti XI° Congresso Nazionale AMISI, pp. 133-140: and Rossi, A. Aspetti psicodinamici della realzione terapeutica in psicoterapia ipnotica, ibidem, pp. 145-155;
  8. Mosconi, G. Teoretica e pratica della psicoterapia ipnotica, Milano, 1998, F. Angeli;
  9. Lanzini, I., Il cavallo di Erickson, in Quarant’anni di ipnosi, op. cit, pp. 207-215;
  10. Pflanz,U.&Stokvis, B. Suggestion, Hippocrates, Stuttgart, 1961, and Orne, M.T.: The Nature of Hypnosis; J. Anborm.Soc. Psych., 58, 1959 and Freud, S. Il metodo psicoanalitico freudiano, 1903, in Opere di S. Freud, Torino, Boringhieri, 1976, Vol. 4m pp. 407-12;
  11. Borch-Jacobsen, M.: L’ipnosi nella psicoanalisi, in Chertok, L.: Hypnose et psychanalyse, 1995, ed. it. Armando, Roma, pp.43-63; and Lanzini, I. Psicoanalisi non direttiva, op. cit. , pp. 54-57; and Massone, A,: L’ipnoanalisi, in Teoretica e pratica della psicoterapia ipnotica, op. cit, pp. 175-205;
  12. Ancona, L. "Un confronto dialettico tra ipnosi e psicoanalisi", in Chertock, L. Hypnose et psychanalyse, op. cit., Roma, pp. 7-15;
  13. Mannoni, O: Un commencement qui n’est finis pas. Transfert, interpretation, theorie, Paris, Le Seuil, 1980; and Lanzini, I. Contributi psicodinamici alla psicoterapia ipnotica, op, cit;
  14. Freud, S. Analisi terminabile e interminabile, 1937, in Opere, cit. Vol. 11, pp. 499-535.
  15. Chertok, L.&Stengers, I: Le coeur et la raison, Paris, Payot, 1989.

Munchen 5 Oktober 2000

 

IPNOSI IN FUMO

Il presente lavoro è la riproduzione, con lievi modificazioni, del lavoro presentato al XIII congreso nazionale AMISI del 2004.

Riteniamo particolarmente utili e pertinenti con le tematiche del presente Seminario sia le parti introduttive che, soprattutto, le modalità di gestione psicoterapica, qui decisamente breve, del quadro sintomatologico  e personologico del paziente.

 

 “L’ipnosi in fumo”. Breve storia di un fallimento sintomatologico dagli esiti interessanti

            E’ cosa risaputa che uno dei maggiori ostacoli alla comprensione del rilevante ed “irrevocabile”, contributo ericksoniano allo sviluppo creativo di una “nuova ipnosi” (1 ), o meglio, di  una ipnosi compiutamente psicoterapica: ancora, e con più precisione clinica ed epistemologica, di una psicoterapia “coerentemente”ipnotica, (2) sia stato e, ancora, in larga misura sia la pre-comprensione – ampiamente diffusa in ampi settori della psicoterapia contemporanea – dell’ipnosi come mera tecnica sintomatologia: come strumento di intervento, sì magari mirato, funzionale ed efficace, ma solo su urgenti situazioni sintomatiche: fobie circoscritte, attacchi di panico, “cattive abitudini” alimentari e salutistiche ecc. (3)

            Va riconosciuto, ad onor del vero, che a tale precomprensione, vero e proprio dannoso pre-giudizio riduzionistico, contribuiscono non poco da un lato una disinformazione o non aggiornamento nella stessa professione medica e psicologica, dall’altro una presentazione, di matrice essenzialmente pubblicitaria, di miracolistici risultati conseguenti all’uso  di metodiche ipnotiche di brevissima durata (anche una o due sedute soltanto) in situazioni anche croniche di disturbi  (molto probabilmente) psicosomatici, allergie, alcuni tipi di asma idiopatica, dermatosi, alopecia o, per tornare alle cattive abitudini, tabagismo e sovrappeso, sconfinante con l’obesità.

            Ora, non si vuole qui misconoscere né l’importanza anche teorica di simili usi e risultati diciamo “tecnologici” dell’ipnosi, né la loro, sia pur limitata, efficacia. Ci preme osservare soltanto che tali usi e risultati molto poco hanno a che fare con la sostanza strategica, ci verrebbe da dire, con l’essenza della moderna psicoterapia ipnotica: con la sua capacità triplice:

a)      di cogliere la complessità sempre personologica della richiesta di aiuto generalmente contenuta anche nella più semplice e, appunto, “puro sintomatologica” delle richieste dei nostri pazienti;

b)      di rispondere adeguatamente, ecologicamente e non direttivamente a tale complessa richiesta;

c)      così da promuovere nel paziente processi di modificazione emotivo-affettiva e cognitivo-relazionale di qualità non dissimile da quella reperibile nella maggior parte degli altri “più comuni” orientamenti psicoterapici, ivi inclusi quelli di orientamento psicodinamico.

E’ allo scopo di dare documentazione clinica di questa (a+b+c) complessa specificità della psicoterapia ipnotica neo-ericksoniana ( 4 e 5  ), che mi è parso utile riportare qui, pur con gli inevitabili schematismi connessi al luogo e al tempo della presente relazione, gli snodi essenziali di una caso clinico che a me pare paradigmatico sia per caratteristiche contenutistiche e modali della richiesta di aiuto, sia per le strategie utilizzate nella decodificazione e restituzione della richiesta.

(Procederò intervallando brevi descrizioni cliniche, ampiamente riproducenti le transazioni comunicative col paziente, a commenti utili a evidenziare proprio quegli aspetti comunicazionali e relazionali che mi paiono più rilevanti per meglio documentare i punti indicati sopra). [1][1]

Il caso clinico.

  • Prima seduta

 (prima parte)

Alberto è un ingegnere di 40 anni, responsabile amministrativo, nonché socio di maggioranza di una piccola ma consolidata società di informatica. Forte fumatore: stabilmente più di un pacchetto di sigarette al giorno, qualche volta anche due. E’ con questa povera autopresentazione  che viene, per il tramite delle indicazioni “entusiastiche” di un mio ex paziente e suo lontano conoscente, nel mio studio definendo subito la sua richiesta  nei termini piuttosto secchi dello “smettere di fumare, possibilmente in tempi abbastanza brevi, tramite l’ipnosi” – che ha saputo essere molto efficace per questo genere di problemi.

Chiedendogli come pensa che l’ipnosi possa ottenere simili risultati, vengo a sapere che Alberto  da un lato, immagina l’ipnosi come un “essere messo in uno stato di sonno che gli permette di obbedire con forza agli ordini giusti dell’ipnotista”, dall’altro è convinto dell’esistenza “dentro di noi di forze, di energie che chiedono solo di essere attivate al momento giusto, e che ci permettono di ottenere il controllo su tutte quelle situazioni che ci sfuggono”. A sostegno di questo convincimento e a indiretta integrazione del suo modo di intendere l’ipnosi e le ragioni del suo “potere”, Alberto aggiunge che, ai tempi della sua tesi di laurea, quando era arrivato a fumare stabilmente 40 sigarette al giorno, si era rivolto ad uno specialista medico che gli aveva applicato all’orecchio sinistro una sorta di anello, fermaglio d’oro che – gli aveva assicurato – era in grado di favorire un “riaggiustamento neurologico spontaneo”, capace di “interrompere la spinta al fumo e restituirgli una libertà incredibile sui suoi comportamenti”. Alberto, intuendo la mia domanda, aggiunge subito che l’effetto ci fu e durò quasi 9 mesi, e che lui riprese però “per un eccesso di sicurezza: avevo sopravvalutato la mia capacità di riprendere il controllo sul vecchio vizio. Mi sentivo così libero di non fumare e così potente da pensare che avrei ripotuto smettere in ogni caso”.  Come anticipando ancora una mia possibile domanda, Alberto chiarisce subito che il motivo fondamentale per cui è tornato a decidere, dopo più di 15 anni di smettere di fumare non è quello della salute: “lo so, sembra un po’ assurdo, perché ormai è chiaro che fumare è veramente rischiare il cancro. Però non è il rischio che m’infastidisce. Ciò che non tollero è l’umiliazione del fumo. Capisce? Il vedermi, sentirmi schiavo, privo di controllo. Mi sembra quasi incredibile che io non riesca a fare quello che voglio e a subire esattamente quello che detesto!”.

Alberto comunica queste sue ragioni in modo molto secco, con durezza.  La sua postura è rigida – pare quasi sull’attenti: come se parlasse di fronte ad un tribunale, assumendosi la responsabilità di una grave mancanza unita all’impegno di porvi subito rimedio, costi quel che costi.

Per quanto le sue comunicazioni e il suo congruente stile comunicativo tematizzino a sufficienza la problematica del controllo, del bisogno di controllare e soprattutto tenersi sotto controllo, mi colpisce l’assenza di qualsiasi riferimento al suo contesto relazionale, alla sua vita, alla sua storia. Così come mi colpisce che l’unico fuggevole ma significativo dato biografico sia stato il riferimento alla sua tesi. Per questo, in modo estremamente informale e “leggero”, mi trovo a chiedergli quale “nuova prova” stesse nel frattempo affrontando ora, per tornare a voler uscire dalla umiliazione del fumo. Alberto è colpito dalla domanda, “impressionato” – come dirà inseguito. Rimane per qualche lungo minuto in silenzio, poi, cambiando vistosamente tono della voce e atteggiamento posturale: “Beh, sì, in effetti, ora che mi ci fa pensare, una prova la sto attraversando. E’ tutta un’altra storia, però. Mi sto separando. Anzi no: sono già separato. E’ che sto litigando ancora con la mia ex moglie per poter vedere di più i miei figli e per altre questioni…Sa, insomma, tutto quel fango che vien fuori sempre quando ci si separa…lei capirà di certo…”. “Sì, comprendo bene. E’ duro e anche doloroso” – mi azzardo a dire, non solo per comunicare una mia sincera partecipazione al suo stato emotivo, ma anche per saggiare la sua capacità di accettare un discorso sulle emozioni – visto che fino a quel momento, nulla nelle sue parole accennava ad una certa consapevolezza del suo sentirsi. Proprio questo riferimento al dolore riporta immediatamente Alberto…a ricomporsi e chiudere: “E’ comunque una questione da risolvere con un buon legale e la battaglia sarà lunga. Cosa vuole, uno non se la cerca, ma quando c’è guerra, bisogna affrontare il nemico, controllarne bene le mosse e batterlo. Non c’è tanto tempo …per le chiacchiere”.

  • 1° commento

E’ facile notare, alla luce di questa breve, schematica tranche iniziale della seduta, come la specificità della richiesta di Alberto di smettere di fumare risieda nella sua “eccentricità esistenziale”: nel contesto cruciale di una separazione - non solo legalmente complessa e conflittuale (legali, battaglie, guerre, nemici ecc.) ma emozionalmente intensa, non ancora accettata (“mi sto separando, anzi no”) e tale da produrre inconsapevoli processi di svilimento e di ferita narcisistica (il fango) – Alberto decide di impegnarsi a smettere di fumare. Da un punto di vista razionale, per lo meno della razionalità “un po’ alla buona” del senso comune, Alberto pare simile a quel capitano che decide di pulire i vetri della sua cabina ormai intollerabilmente sporchi…mentre si trova nel pieno di una tempesta in alto mare!  O a chi, con la casa che brucia, decide di andare a sistemare il box! O, per usare le parole conclusive ed espressive dello stesso Alberto: pare simile a uno che “saputo di una terribile malattia, decide di mettere ordine nel guardaroba!”.

Seguendo la logica eccentrica della psicoterapia ipnotica(6),e quindi, ponendo metodologicamente tra parentesi il piano della ricostruzione degli snodi esistenziali-chiave della vita di Alberto (e massimamente di quelli edipico-parentali), possiamo invece cogliere e accogliere la sua eccentricità motivazionale come un suo personalissimo modo di gestire una situazione angosciosa di cui non ha o può concedersi consapevolezza, ma cui vuole porre rimedio secondo una prospettiva speculare: se tutto sta traballando intorno a me, devo almeno trovare un punto da tenere stabile. Da controllare.[2][2] Lo smettere di fumare nel contesto della separazione esprime quindi molto bene e congruentemente il modo più autentico ( qui, in senso di accentuata egosintonia, non nel senso di genuinità personologica) di Alberto di gestire l’ingestibile (non riconosciuto né riconoscibile) nella sua separazione: la perdita di controllo su molto (anche se non ci è possibile capire ancora e bene su quanto e cosa: solo su molto).

E’ per queste considerazioni che la seduta continua riprendendo alla lettera la richiesta di Alberto.

 (seconda parte)

“Quindi lei è venuto qui con il deciso obiettivo di smettere di fumare. Questa insomma è la sua decisione per l’oggi…”

“Sì, senza ombra di dubbio. Per me è diventato una specie di dovere morale nei miei confronti: è ora di fare qualcosa, di smettere di pensare e basta”.

“Per questo mi viene già da un po’ da chiederle cosa, a suo parere, le abbia impedito di mettere in atto questa decisione, visto che i termini del problema le sono così chiari”.

“Il fatto è – riprende Albero con tono meno rigido, più emotivo – che rinunciare all’unica fonte di piacere che mi è rimasta…ecco, mi pare un’ingiustizia. Sì, mi rendo conto che è contraddittorio: sto dicendo che l’unica fonte di piacere è una abitudine dannosa e cattiva. Ma lei sa (con fare un po’ ammiccante) che fumare è bello. Gustoso. E poi…allenta lo stress. Provi lei a non fumare dopo una telefonata folle con una donna che non solo ti vuole escludere dalla sua vita per un altro…(qui il volto di Alberto è molto contratto e triste) ma che vuole allontanarti dai figli…ma sa cosa vuol dire la lontananza da un figlio che fino a ieri eri abituato a vedere, a sentire lì, a metterlo a letto? …(Proseguendo in un crescendo di rabbia, impotenza, scoramento) E’ roba che o piangi, anzi urli o…prendi il fucile e sai che in ogni caso non otterrai mai quello che vuoi. Ecco, ora che ci penso, è roba che meno male che c’è almeno una sigaretta!”

“Mi pare di capire – annoto in modo garbato e leggermente asettico, descrittivo - allora, che smettere di fumare vuol dire rinunciare ad un piacere, ad un calmante, ad un antistress”.

“Senza dubbio – risponde Alberto di nuovo in “posizione di combattente” – sarà dura, ma ce la farò. Non ne posso proprio più”.

“Pensa di essere in grado di fare una ipotesi, ovviamente approssimata, su quanto tempo ritiene necessario e adeguato per raggiungere il suo obiettivo?”

“Credo che in sei mesi ce la potrei fare, sì insomma: col suo aiuto, con l’ipnosi – da solo ho capito che non posso farcela. Mi sembra assurdo e umiliante non farcela da solo, ma mi sembra ancora più umiliante non smettere”

“Ho capito. Pensa allora di poter fissare già ora un nuovo appuntamento – dove potremo riprendere e approfondire quanti ci siamo detti? O vuole prendersi ancora un po’ di tempo e mettere più a fuoco con calma tutto quello che ci siamo detti e richiamarmi?

“No, la decisione è già presa. Anzi, adesso mi è più chiara. Possiamo fissare l’appuntamento”.

2. commento

Le comunicazioni sopra riportate confermano ancor di più come la richiesta di Alberto sia contemporaneamente:

a.       l’espressione traslata, metaforica di un bisogno acuto, intenso, improrogabile di gestire operativamente (facendo qualcosa) quel senso profondo, angosciante di disorientamento, dolore, umiliazione e perdita di autostima – connesso ai modi e alle implicazioni  della separazione (:”tradimento”, compromissione del rapporto di paternità, rifiuto affettivo) – di cui è solo oscuramente consapevole e solo nei suoi aspetti più periferici, superficiali;

b.      l’espressione o indicatore di una struttura personologica rigida e “scissa”, ossia incapace di consentire e consentirsi sia un dialogo interiore tra emozioni, sentimenti, pensieri, sia un atteggiamento introspettivo-riflessivo.

Proprio questa duplicità non contraddittoria ma funzionalmente ambi-valente del significato e della funzione della richiesta di Alberto, il suo essere cioè sia meccanismo di difesa (ovviamente arcaica e relativamente immatura, nonché strategicamente inadeguata) sia strategia auto-curativa: di compensazione e tenuta in un contesto di forte pressione e scompenso narcisistico, sia “patologia” sia “risorsa”, sia mistificazione (o autoinganno) che illusione terapeutica (sogno-che-cura) pone al terapeuta (così almeno è stato ed è da me inteso) il problema, di notevole rilevanza clinica, di “cosa fare” e subito di tale richiesta.

In un caso simile, la tradizionale risposta psicoanalitica – quella di creare le condizioni per disvelare l’autoinganno del voler smettere di fumare in pro’ di un percorso esplorativo sul tragitto  esistenziale  di Alberto, in quei suoi snodi consci e inconsci connessi alla  scelta coniugale e ai suoi complessi edipici significati – non solo non sarebbe stata praticabile per via della limitatezza (al limite dell’atrofia) della flessibilità introspettiva, ma sarebbe stata addirittura pericolosa, perché compromissiva di un equilibrio intrapsichico e relazionale che trovava, nell’hic et nunc di quel momento esistenziale di Alberto, la sua “pietra angolare” proprio attorno al darsi quell’obiettivo eccentrico.

Per le stesse ragioni, qualsiasi risposta che, più pacatamente, si fosse limitata a evidenziare difficoltà e rischi connessi allo smettere di fumare in simile contesto esistenziale avrebbe agito  come comunicazione sbilanciante e patogena – rischiando di ridursi, in sostanza, ad un lasciar solo il paziente.

Per converso, l’idea, squisitamente ericksoniana, di accogliere tale richiesta e, con essa, anche il modo “arcaico” con cui Alberto leggeva la sua situazione e di utilizzare fino in fondo tutte le valenze auto-curative di tale richiesta allargandone la portata e gli effetti in modo da renderla efficace per gestire ciò che formalmente, ufficialmente la coscienza di Alberto non sapeva, ne poteva gestire: questa idea insomma di un uso al tempo steso sincero e paradossale di essere fedeli alla sua richiesta nella esatta comprensione del suo “alludere ad d’altro” -  ci pareva l’unica praticabile, o per lo meno l’unica capace di trasformare l’eccentricità della richiesta in una creativa strategia di aiuto e cura. (7) Di qui la scelta di impostare l’intero percorso psicoterapico sull’accoglienza al tempo stesso letterale e allusiva della tematica del fumo, in tutte le accezioni e sensi  e usi metaforici che Alberto stesso avrebbe avuto la piena libertà di continuare a conferirvi. Va inoltre osservato che a sostegno della plausibilità della scelta di un approccio psicoterapico ipnotico (quindi connesso a modalità analogiche di elaborazione delle informazioni e dei vissuti nonché ad una forte periferizzazione della dimensione coscienziale in pro’ di quella insconscia) giocava anche l’esperienza del precedente tentativo di smettere di fumare – nella misura in cui documentava sia la credenza “spontanea” di Alberto circa l’esistenza “dentro di noi di forze che chiedono di essere attivate al momento giusto” sia il suo circoscriverle ad un “luogo o mondo” di cui lui nulla sapeva (né voleva sapere).

  • Seconda  seduta (con prima esperienza di induzione ipnotica)

Alberto arriva puntuale all’appuntamento e subito chiede di capire qualcosa di più sull’ipnosi, così da “meglio collaborare” . Gli comunico che, in effetti, “l’esperienza ipnotica è un modo …per tornare a scoprire …  ovviamente grazie ad una relazione umana come la nostra, ad esempio .. quelle energie, quelle risorse e anche quelle capacità di sentire, di pensare in forme differenti, creative, risolutive …che ciascuno in fondo possiede e sa inconsapevolmente di possedere”. Notando l’accentuato livello attentivo di Alberto e – cosa molto significativa – il suo annuire convinto a questa presentazione dell’idea dell’ipnosi, aggiungo subito che l’esperienza ipnotica, “è una esperienza gradevole, che dà soddisfazioniqualche volta molto profonde…anche se certo richiede tempo, come lei stesso aveva ben indicato la volta scorsa, per essere appresa e

Compresa…anche perché è un’esperienza non solo intellettuale…comprende tutta la persona e quindi anche il corpo…anzi, forse parte proprio dal nostro corpo, e favorisce un modo nuovo di entrare in contatto anche con le energie del corpo ..e ovviamente, con tutti i loro significati…Se vuole, possiamo anche adesso fare assieme questa esperienza corporea, così utile se pensa poi a quanto il suo corpo patisce e sopporta per tutto quel fumo che è comunque in grado di smaltire, anche se…beh!.. lei lo sente meglio di me … con fatica..”.

Alberto accetta con visibile e sentita partecipazione.

 

Per ragioni di spazio, riporto i passaggi chiave della prima induzione ipnotica (tralasciando quelli più “banalmente” procedurali, [3][3]così da concedere maggiore evidenza a quelli di valenza analogico-metaforica che avrebbero avuto più peso e valore terapeutico nel prosieguo del trattamento):

 

            “…e mentre il suo corpo…spontaneamente si accomoda sulla poltrona…e trova il suo particolare stato di quiete…di calma…lei può sentire come è gradevole prendereadagio adagio…il controllo tranquillo, sicuro del proprio personale modo  …di abbandonarsi a tutte le sensazioni che il suo corpo vuole comunicarle…proprio come faceva da piccolo…dopo una giornata di giochi…quando si torna  casa ..e sente il corpo la bella stanchezza…la pesantezza leggera dei muscoli e…e decide di abbandonarsi completamente… e le sensazioni…le percezioni…vanno e vengonocome le mie parole…e lei allora…e  adesso è perfettamente capace di lasciar andare il suo corpo…sicuro, calmo…libero di sfiorare il sonno…e fare tutti quei piccoli movimenti…alle mani…alle dita …che fa di notte…mentre si rigenera nel sonno (Alberto muove a piccoli scatti il mignolo e il pollice della mano destra)…mentre respira pulito, libero…e aperto e pronto al suo mondo interiore…dove ricordi…immagini…suoni…profumi …piacevolmente si presentano…come regali …inaspettati…del  suo inconscio…delle sue energie profonde…che lei sa da tempo…e che ha saputo conservare…proteggere…custodire…come un tesoro prezioso…e lei sa che può bene affidarsi a queste energie…a queste risorse…e consegnare a loro tante cose…lasciare che prendano loro il controllo di tante cose…anche di quelle che non sa …e che loro già sanno…e che lei  saprà al momento giusto…quando tutto sarà così tranquillamente…sotto controllo e lei saprà…di potersi…lasciare andare…a nuovi pensieri…verso nuove strade …e sentieri…che la sua mente inconscia le insegnerà a vedere …respirando aria nuova….”

 

           

Alberto riporta, al termine della seduta, una profonda esperienza di benessere, una sensazione diffusa di “un piacevole galleggiare…come se mi sentissi leggero e sospeso…non so se nell’aria, o come quando si è sul fondo di una barca e si sentono sotto le onde…”. E aggiunge: “Sa, è un po’ strano: ma mi sentivo oscillare dentro, capisce, dentro di me. Un po’ come quando uno deve prendere delle decisioni o ascoltare due collaboratori e va avanti e indietro, per soppesare le cose”. “E perché trova questo strano?” “(Dopo una pausa, ove pare raccogliersi in sé, leggermente assente rispetto alla relazione)E’ che non mi costava fatica oscillare, non avevo paura: io in barca, dico sul fondo della barca, avrei paura della deriva, di non vedere la direzione…e invece mentre sentivo la sua voce che andava e veniva…non so, c’era una inspiegabile sensazione di sicurezza…”

“Bene, penso che potremo continuare questa esperienza durante la prossima seduta…”

 

 

            Commento

 

Ci preme schematicamente far osservare, in riferimento tanto alla conduzione nostra della prima seduta con induzione quanto della fenomenologia di quest’ultima, quanto segue:

 

  1. anzitutto, come il “messaggio prevalente” metaforicamente veicolato ad Alberto mediante riferimenti apparentemente puro-fisiologici di rilassamento: ovvero l’invito a “controllare il suo abbandonarsi” sia stato da lui colto e rielaborato così bene da avergli permesso di fare una prima virtuale esperienza della possibilità di spontaneamente oscillare-senza-temere: di non vedere la direzione e ciononostante esser sicuro”;
  2. inoltre, che la metafora di Alberto dell’oscillare-senza-temere già sembra suggerire l’inizio di un mutamento del suo modo s-composto, rigido, per aut aut, di vivere sé, le sue emozioni e le sue difficoltà;
  3. infine, e significativamente, che ogni allusione alla tematica del fumare pare essere “caduta nel vuoto” – al punto che lo stesso Alberto non vi fa menzione a fine seduta.

 

 

 

  • Terza seduta

 

Di questa seduta, riportiamo ancora i passaggi salienti della seconda induzione ipnotica per via della loro particolare rilevanza in ordine alla comprensione di come creativamente Alberto inizierà a affrontare le sue (negate, denegate e “separate”) angosce relazionali connesse alla drammatica situazione coniugale rimanendo all’interno di un contesto metaforico che ad esse solo e latamente allude.

 

“…e proprio mentre avverte tutta la piacevolezza del corpo che si abbandona…lungo la sicura direzione della quiete e del riposo …e mentre lei sa già bene che in quella direzione…il suo corpo imparerà cose nuove…nuovi modi di distendersi…di sentirsi…di respirare …di rigenerarsi…lei potrebbe iniziare ad accorgersi di nuove immagini…che stanno per apparire agli occhi della mente…e che forse provengono proprio da quel luogo profondoantico e presente…nella sua mente inconscia… che lei intuisce…e se vuole può farsi trasportare da queste immagini…che la avvolgono…e la trasportano sicure…verso nuovi orizzonti…nuovi pensieri…nuovi paesaggi…di mare…o montagna…e lì, se la sua mente inconscia glielo consentirà…potrà concedersi nuove emozioni …nuovi sentimenti…sentendosi libero di decidere come provarli…per questo la mia voce tacerà …per qualche minuto…e lei avrà modo di guidare …quasi senza accorgersi…tutte le sue nuove emozioni…i suoi sentimenti…verso la loro giusta destinazione…e quando intuirà in qualche modo…di aver raggiunto quella sua destinazione …potrà segnalarlo …sollevando spontaneamente un dito della mano… e non importa se forse non si accorgerà della scelta della mano..o del dito ..la mia voce tornerà allora a  parlarle (lunga pausa, circa 10 minuti.…Alberto solleva il mignolo della mano destra) e adesso…dopo le esperienze che ha fatto…e che solo in parte ha potuto comprendere…può concedersi…prima di iniziare a guidare verso l’uscita …dall’esperienza della trance ipnotica…può concedersi una sigaretta…se lo vuole…lasciando che sia il suo corporilassatopulito…a suggerire cosa fare di quella sigaretta…che forse già vede vicino a sé…e dopo tutto…respirando profondamente…potrà adagio adagio riprendere contatto con la sensibilità normale…dei piedi, delle gambe, delle braccia…e riaprire gli occhi al momento giusto…”

 

Alberto “si riprende” molto lentamente…”Questa volta è stato diverso, sa? …molto più intenso…la sua voce era a tratti molto forte…assordante…come le onde del mare, quando è grosso…poi più nulla…un silenzio. Ricordo molto poco…ho come la sensazione di un viaggio…quei viaggi dove si vedono molte cose”. “E se ne ricorda qualcuna?” “No. Nessuna. Ricordo solo di aver provato tante emozioni…alcune molto tristi. Anzi, tutte erano tristi …Mi sento come un capitano di una nave…sa come in certi film…il capitano che si incontra al porto…con una bottiglia di qualcosa in mano…che si vede che ha un passato drammatico alle spalle…e non si capisce bene…” “Cosa non si capisce bene?” “Ma  non so: a cosa serve quella bottiglia? A dimenticare? O forse no?” L’espressione di Alberto si mantiene sospesa nel vuoto: da’ la sensazione di essere assorto in qualche immagine. Poi di colpo, un po’ eccitato: “Sa che non ho fumato? Mi ricordo bene della sigaretta. Ma non mi è venuta voglia di fumarla…l’ho lasciata lì.” “Dove?” “Non lo so, lì, in un luogo…” “Bene, possiamo lasciarla lì e vederci la prossima volta, no?”.

 

 

            Commento

 

Esaminare i vari snodi di questa seduta occuperebbe troppo tempo, anche se, in sede di pura ricerca metodologica molti punti sono di indubbio interesse. Solo due annotazioni “strategiche”:

 

a.       Alberto sembra aver iniziato a tollerare di immergersi nel mare delle sue emozioni dolorose. Sono accolte come “dati di fatto” e, in parte, come “dato del passato” – anche se è un passato, come dire, attuale: il capitano con la bottiglia, infatti, cosa fa? Beve da sconfitto? Brinda ad un nuovo inizio? Sembra ancora un capitano immemore. Del resto Alberto sa di aver visto molte cose ma non sa quali. E forse è bene che le cose...stiano proprio così.

b.      Il lettore non deve sopravvalutare la “vittoria sulla sigaretta”. E’ una vittoria ampiamente programmata, quasi inevitabile: essendo stata da me costruita ponendo Alberto nella condizione di sentire il suo corpo rilassato. In quella condizione che lui stesso ci aveva segnalato essere neutra rispetto al fumo. Il valore di questa “vittoria” risiede quindi solo nel commento soddisfatto che ha provocato in Alberto. Commento che gli fornisce un nuovo inizio motivazionale allo smettere di fumare che non ha nulla a che vedere con le ragioni ufficiali (centrate sulla tematica del controllo) che lui aveva presentato.

 

 

  • Quarta seduta

 

E’ una seduta “di svolta”, che non solo mi ha in larga misura colpito, ma conferma, in altrettanta misura, della bontà di alcune fondamentali intuizioni ericksoniane che in seguito riprenderemo più distesamente. Dedicheremo pertanto a questa seduta uno spazio un po’ più esteso.

 

 

Alberto prima di iniziare l’induzione ipnotica, tiene a farmi sapere di aver sensibilmente ridotto il numero delle sigarette (circa 10 dalle 30 usuali) e soprattutto dice di fumare non sotto stress (fatto questo, che mi fa intuire che qualcosa si sia positivamente modificato o sul piano reale dei comportamenti della ex moglie o sul modo di Alberto di gestire la sua separazione).

Dopo aver lasciato cadere un commento a latere un po’ scherzoso del tipo “Beh, comunque, occorre prendersi tutto il tempo che ci vuole prima di abbandonare un nostro piacere”, iniziamo la  fase di induzione di trance. Eccone i passaggi fondamentali:

 

“…e capita anche che il nostro corpo…così spontaneamente disteso, quieto…equilibrato…ci comunichi diverse sensazioni…sensazioni anche opposte, gradevolmente opposte tra di loro…forse già ora…il suo braccio destro, il gomito..il polso…anche la mano hanno iniziato a sentirsi più pesantipiù pesanti…ad ogni delicato respiro…tutto il braccio e la mano…si sentono più pesanti…e lei può notare bene…come aderiscono pesantemente al bracciolo…come se fossero fatte di ferro, di cemento…e lei sente il suo braccio proprio così…gradevolmente e fermamente pesante…e non importa per ora…comprendere il significato di tutto questo…lei già lo sa profondamente…e le capacità intuitive del suo inconscio avranno modo di guidarla a comprendere…al momento giusto.. tutto questo…a farle sentire questa parte profonda…della sua persona…della sua personalità…quella parte forte, stabile…che sta ferma, aderente alle cose…dentro le cose, come radici di un albero che può anche vedere…col tronco che erge…ed è bello sentire questa parte forte e stabile che siamoda tanto tempo…che ci accompagna sempre…con sicurezza…ed è per questo…che può spontaneamente accorgersitra poco…di altre sensazioni…dell’altra parte del suo corpo…e sentire così come… l’altro braccio…e l’altra mano…si fanno più leggerepiù leggere…e mentre respira un’aria sempre più fresca e leggera…anche il braccio…e la mano…si fanno più freschi e leggeri…e così potrebbe anche…sentire come un galleggiare del braccio e della mano…nell’aria…e forse vede anche…le dita…sente che le dita sembranovogliono muoversi verso l’alto…diventando sempre più leggere (la mano sinistra di Alberto e sollevata di qualche centimetro dal bracciolo e le dita compiono piccoli movimenti, a brevi scatti)…come se il braccio e la mano…fossero ali di gabbiano…ed è bello scoprire e sentire…questo gabbiano…vederlo in volo…sentire questa nostra parte altraleggera, flessuosa, dinamica…che sa alzarsi…volare…leggera…e sa vedere benedall’alto…e se vuole…può guardare anche lei con gli occhi del suo gabbiano…alzare lo sguardo su orizzonti più vasti…guardarli (il viso di Alberto pare sognante, la bocca accenna ad un sorriso leggero e le piccole pieghe sulla fronte sopra il naso danno l’idea che stia osservando qualcosa con attenzione e concentrazione)…e se vuole può guardare in ogni direzione…avanti…e indietro…nello spazio del cielo…nel tempo… della sua storia…e vedererivederecapireriscoprirecambiareprospettiva….come il suo gabbiano …che sa quando è il momento…di abbandonarsi…alle correnti calde…di planare…di andare sotto costa…sa quando cambiare nido…quando spostarloripararlo…sa volare in gruppo…e sa far da solo anche viaggi lunghi…ecco…la mia voce tra poco si allontanerà…e lei potrà continuare in questa nuova esperienza…sentendo sempre più queste sue parti importanti …lasciando alla sua mente profonda il compito …di farle incontrare…l’albero…e il gabbiano…e si prenda tutto il tempo che la sua mente le suggerisce…e poi…adagio adagio si faccia lei guidare a riprendere contatto…con la realtà esterna…tornando a risentire il suo corpo…la sua sensibilità normale…riaprendo poi gli occhi…lasciando che tutte le immagini…intraviste…si depositino nella sua memoria inconscia…e favoriscano…le modificazioni profonde autentiche…che lei desidera…e se vuole…anche il giusto abbandono del fumo…(Alberto riapre gli occhi dopo circa 8 minuti).

 

Alberto si riprende molto gradualmente. Si sfrega più volte gli occhi che paiono arrossati. Si riorienta e riadatta alla realtà, dicendo, con voce rauca, come di chi ha da poco smesso di piangere, di venire “da un viaggio veramente lungo, lontano”. Fa una lunga pausa. Guarda l’orologio e mi chiede se abbiamo un po’ di tempo per parlare. Percependo qualcosa di molto significativo per lui e considerando che (per puro accidens) è l’ultimo paziente della giornata, gli garantisco il tempo che gli serve per poter dire “proprio tutto quello che vuole”. Sollevato, Alberto  inizia subito: “Vede, è quello che ho visto che mi colpisce…visto non è esatto…mi sono visto e sentito: mi è sembrato di aver visto un film e di accorgermi che il film parlava di me, anzi che io ero in qualche senso strano il protagonista…solo che, ancor adesso, non so chi diavolo sia stato il regista”. “Eh che film ha avuto modo di vedere?” “Beh, quello del gabbiano, no?! Questa volta, non so perché, mi sono sentito molto più lontano da qui, e però la sua voce era molto più dentro di me. Era dentro in modo forte e delicato. O forse ero io che la ascoltavo meglio – come quando a scuola ti accorgi all’improvviso che quello che sta dicendo il professore è veramente interessante e allora lo segui con estremo interesse!…” “Capisco. E quindi?” “E allora è che mentre ascoltavo la sua voce io ad un certo punto ho visto un gabbiano che volava, ma poi questo gabbiano continuava a volare…ma era in uno schermocome una cartone animato …sì, come la Gabbianella e il gattoforse ero la Gabbianella…e mentre il cartone continuava (io so che continuava ma non ricordo nulla della storia e però so che quella storia mi riguardava!)…ad un tratto mi sono ritrovato a casa mia…con mia moglie e i miei figli…ero lì, li vedevo e capivo che…dovevo cambiare nido…che dovevo proprio andarmene…che insomma dovevo muovermi di lì senza traballare dentro, capisce?  E mi veniva da piangere, piangere forte. E vedevo il mio volto duro e in lacrime, duro e in lacrime…c’erano queste due immagini…poi ho sentito la sua voce calda che diceva qualcosa come “prova (n.b. era “può”) a guardare in ogni direzione, avanti e indietro anche nel tempo” e mi sono appoggiato a quelle parole come se mi fossero di conforto. Non so perché. Era come se in qualche modo avessi intuito che significavano qualcosa proprio per me. E questo mi ha dato coraggio. Anche se mi sento ancora adesso molto provato. Ma quasi più per quello che mi attendo che per quello che ho fatto”. “E cosa pensa che la debba attendere?” “Non lo so, con sicurezza. So che riguarda mia moglie e i miei bambini. So che devo cambiare tutto. E però sento e credo che l’ipnosi, che lei mi possa essere di aiuto. A parte il fumo. Ecco ci tenevo a dirle questo, anzi, a dire il vero, ho avvertito come il bisogno di dirlo subito, come per paura che se non glielo avessi detto qualcosa sarebbe andato male e io sarei precipitato nell’angoscia di prima”. “Quindi ora si sente più sereno?” “Sì, meglio.” “Allora, la prossima volta potremo riprendere da qui?” “Certo”.

 

 

 

 

 

      Commento

 

Come spesso accade in psicoterapia ipnotica, le accelerazioni terapeutiche, il velocizzarsi cioè di fenomeni di positiva modificazione di dinamiche intrapsiche e/o comportamentali del paziente sono il risultato di elementi comunicazionali “intelligentemente accidentali” da parte del terapeuta e di elaborazioni inconsapevoli e creative da parte del paziente. (8)

 

Nel caso di Alberto, pare ragionevole scorgere come fattore “intelligentemente accidentale” di profonde modificazioni intrapsichiche proprio la complessa e multisensica, polivalente metafora dell’albero e del gabbiano. Essa infatti viene a rappresentare e promuovere, attivare capacità  e risorse speculari che, pur suppositivaemente presenti in Alberto,  non erano ancora intergrate. Ci riferiamo a quelle collegate alla fiducia in sé, a sentimenti primari di sicurezza e “radicamento” e quindi di tolleranza nei confronti delle avversità della vita (di ciò che la vita ci lancia versus contro di noi, la nostra immagine e la nostra autostima) da un lato, e a quelle collegate alle capacità riflessivo-esplorative-rielaborative di comprendere, comprendersi, ri-progettare e ri-progettarsi,  tipiche dell’Io adulto e maturo – e che parevano fortemente bloccate, “rattrappite” nella vita di Alberto.

 

Sono queste capacità che, attivandosi, portano Alberto a riconoscere, sia pure in modo intuitivo e però niente affatto primitivo, l’ubi consistam “reale” del suo problema: il dolore, la difficoltà e l’angoscia connesse a “cambiare nido” e in questo modo, ad “avere il coraggio” di provare queste emozioni, senza spaventarsi, senza esserne travolto e sommerso.

 

Al tempo stesso, non può essere scotomizzato il ruolo significativo che il clima relazionale e il vissuto transferale (si noti, in larga, preponderante misura consentito dalla modalità ipnotica di comunicazione, specie nei suoi versanti di sincero ricalco del modo di percepirsi del paziente) hanno nell’aver permesso ad Alberto di fare l’esperienza – a nostro avviso dislocata tanto dentro la dimensione della trance quanto nel contesto comunicazionale cosciente, “normalmente ipnotico” – di sentirsi appoggiato e quindi di potersi appoggiare al terapeuta e alle sue parole. Alberto condensa - con efficacia superiore a qualsiasi formalizzazione teorica - questa complementarietà terapeutica di relazione e comunicazione ipnotica, di transfert e trance, di rapport e metafore quando comunica al terapeuta  “che l’ipnosi, che lei mi possa essere di aiuto”. Proprio questa congiunzione di “ipnosi e lei”, ovvero di esperienza (cognitivo-affettiva “coscientemente” alterata) della comunicazione ipnotica e del suo contesto umano, personale e personologico: relazionale (e quindi portatore di significati complessi che il paziente deve essere lasciato libero di vivere e sentire senza alcun autoritario commento interpretativo-esplicativo  – sia esso di matrice psicoanalitica che cognitivistica) – proprio in questa congiunzione penso sia corretto scorgere lo specifico teorico e clinico della psicoterapia ipnotica tanto alla luce della lezione “classicamente” ericksoniana, tanto nel contesto dei suoi sviluppi neo e post-ericksoniani (2,  9     ).

 

Entrando in un esame pur sempre schematico ma più ravvicinato di questa seduta, è altresì possibile notare:

a.       anzitutto, come nello stato detto di trance avvengano effettivamente processi di natura raffinata e complessa di sicura portata ri-strutturante, così comprovando come la comprensione razionale e, più in generale, il padroneggiamento egotico del disagio e del conflitto psicologico non solo non siano indispensabili fattori terapeutici, ma talvolta, come in questo caso, siano di ostacolo allo sviluppo di più mature e integrate esperienze del Sé;

b.      inoltre, come il potenziamento dei processi immaginativi consentito dalla trance ipnotica, ovviamente all’interno di “suggestioni metaforiche” mirate perché dotate di senso per il paziente, permetta al paziente di entrare in contatto diretto e globale con parti dissociate del Sé o, anche più semplicemente, del proprio mondo emozionale: contatto diretto e globale che opera come esperienza integrativa e quindi aggiuntiva sia di informazione che di comprensione di sé, e non solo e banalmente giustappositiva – come certa vulgata psicoanalitica ancora insiste nel sostenere ( 10  );

c.       infine, come l’accoglimento della richiesta sintomatologia del paziente (smettere di fumare) non rappresenti di per sé alcun ostacolo insormontabile per un progetto psicoterapico mirante a favorire i processi di crescita e maturazione dell’individuo – quale appunto è e rimane il progetto neo-ericksoniano.

 

  • Quinta seduta e successive (18)

 

Pleonastico, oltrechè impossibile, sarebbe il riprodurre in dettaglio il prosieguo della terapia di Alberto. Ci limitiamo a fornire una traccia della quinta seduta, perché contiene in sé tutti gli elementi strutturali essenziali che connoteranno le 13 successive e che permetteranno di comprendere gli snodi clinici essenziali del trattamento e la qualità della sua efficacia.

 

Alberto chiede di potermi aggiornare, prima della seduta di ipnosi, su “quello che sta facendo di sé” – intendendo con questa nuova e significativa espressione, come sta gestendo i grossi problemi emotivi e affettivi con la moglie e, soprattutto, i figli. In particolare, ci tiene a comunicare che “finalmente non vivo più come una umiliazione il fatto che mia moglie mi ha tradito. Sono cose che capitano. E che non possono voler dire che allora io non valgo niente”.

 

Questa esigenza di concedere spazio a momenti di colloquio “tradizionale” tenderà a mantenersi – sia pure in forme e modi diversi (talvolta all’inizio della seduta, talvolta alla fine e in due casi – rispettivamente alla 9^ e alla 11^ seduta, oltre ovviamente all’ultima – i colloqui occuperanno tutto il tempo della seduta stessa) in tutte le sedute, che comunque vedranno, con le sole eccezioni appena rammentate, sempre uno spazio di almeno 30-35 minuti dedicato all’esperienza della trance ipnotica.

 

“…e può anche permettersi…questa volta…di esplorare meglio quel suo albero…che sembra attendere da tempo una sua visita…e infatti…è probabile che già ora…la sua mente inconscia spontaneamente…le faccia il regalo di vedere l’immagine del suo albero…in un luogo caldo, soleggiato…forse è primavera inoltrata…e se vuole…può andare incontro al suo albero…per conoscerlo meglio…osservando le sue radici…che penetrano salde…nel terreno…dando stabilità al tronco…e portando linfa vitale..su su…ai rami…alle foglie…e può cogliere l’equilibrio e le giuste proporzioni…del suo albero…scorgerne adesso …e meglio i colori…le loro sfumature…e scoprirne l’intelligenzafinecomplessasensibile…(pausa di 3 minuti)…e forse…mentre sta ancora osservando il suo albero…e tutti i suoi significati inconsci…forse avverte…la curiosità…di…toccarlo…forse si accorge già di come si è avvicinato…e magari …anche…torna a sentire…quella particolare leggerezza…al braccio…alla mano…come se spontaneamente vedesse e sentisse la mano…alzarsi e muoversi…per toccare la corteccia dell’albero (la mano di Alberto è effettivamente alzata di qualche centimetro e le dita si muovo lentamente nell’aria come se grattassero qualcosa)…e si accorge…che la corteccia ricopre il tronco…in modo diverso…con intelligenza…e sente che verso Nord…da dove viene il freddo…il gelo…la coltre di neve e ghiaccio…lì la corteccia la sente più forte…spessa…ruvida…scura…il tronco di protegge bene…e solo dove serve…e lei può sentire con i suoi polpastrelli…come la corteccia adesso…nella parte che guarda a Sud…è più intelligentemente sottilechiaraporosaaperta ai raggi del sole, all’aria fresca pulita…ed è bello che lei possa assorbire tutte queste cose dal suo albero…e quando lo desidera…può allontanarsi…per vederlo ancora…meglio…e scorgere che c’è vita …tra i rami…che il suo albero continua …ad ospitare i suoi passerotti…o chissà…se è vicino al mare…anche altri uccelli a lei cari..”

 

 

Commento e conclusioni finali

 

 

E’ facile vedere come la seduta riprende la fenomenologia metaforica impostata precedentemente – proseguendo con un ritmo che muove strategicamente dall’offrire immagini di rassicurazione fiduciosa (l’albero) e poi (come avverrà nella seduta successiva che qui non riporteremo) con immagini di sviluppo e crescita e di rielaborazione (per le quali verrà ampiamente utilizzata proprio la Gabbianella che Alberto ha citato dal film tratto dal racconto di Sepulveda). In questo caso, lo schema metaforico dell’albero si è arricchito di immagini-esperienziali – soprattutto – concernenti la corteccia e la sua “intelligente” (ma ampiamente fantastica e fantasticata) distribuzione, atta a sottolineare la prospettiva di difese flessibili, e quindi di pericoli meno minacciosi. Altresì si è aperta a suggerire una immagine di continuità parentale: l’albero che ospita i suoi passerotti (Alberto aveva regalato ai propri figli un racconto che aveva per protagonisti proprio due passerotti “dal color di corteccia di quercia”).

 

L’utilizzo di questo schema psicoterapico ha permesso, nell’arco piuttosto breve di 18 settimane (meno dei sei mesi pensati da Alberto) di porre Alberto nella condizione di riappropriarsi di una immagine positiva e ampiamente “riparata” di sé, che gli ha permesso di trovare il “coraggio” di affrontare gli atteggiamenti aggressivi della moglie in modo molto efficace: è riuscito ad impostare (e, dopo 8 mesi, ho saputo anche ottenere) una separazione “con ampio diritto ad avere i bambini con sé”, ha trovato modo di conciliare bene il suo lavoro con i suoi impegni paterni (ovviamente diminuendo ritmi che ha riconosciuto poi essere eccessivi e un po’ compulsivi) e ha imparato a tener sotto controllo “sempre e solo il mio portafogli…per non far troppi regali ai bambini”. In breve è riuscito ad attraversare “crescendo” un passaggio virtualmente squilibrante e deprimente della sua esperienza esistenziale – anche e soprattutto per via della rigidità emotivo-affettiva scompensata e ipercompensante con cui inizialmente si era trovato a vivere e “gestire” la fase più drammatica della separazione.

Certo, questo non significa che Alberto abbia raggiunto una comprensione complessivamente adeguata dell’intero intreccio psico-affettivo che lo ha portato alla sua scelta coniugale e alla sua rottura. Per quanto, soprattutto nelle sedute colloquiali, abbia mostrato di cogliere nelle sue rigidità e nel suo modello lavorativo ultraefficientistico una delle concause della crisi coniugale, Alberto non ha esplorato le lontane radici famigliari e i connessi, inconsci processi identificatori che stanno alle sorgenti delle sue diversificate scelte affettive. Ma questa non era lontanamente la sua richiesta. Non solo, ma su questo, anzi non vi era da parte sua alcuna disponibilità esplorativa (come, sia detto per inciso, avviene nella netta maggioranza delle persone che si separano o che sono “felicemente” coniugate).

Non vi è del resto nessun motivo razionale e clinico per escludere che le ristrutturanti esperienze emotivo-affettive e rielaborative avvenute in rapporto all’esperienza della separazione incidano dinamicamente e inconsciamente (come accade spesso negli apprendimenti impliciti) su altri e più profondi livelli intrapsichici, con esiti positivi ancora più ampi.

 

E per quanto riguarda invece il fumo? Si chiederà qualche attento lettore symptom oriented!  Bene, il fumo…è rimasto. Anche se con una forte diminuzione della compulsività iniziale. E del resto non poteva che rimanere, ci viene da aggiungere. Noi, infatti, possiamo – sia pur con difficoltà e pazienza e coraggio – smettere di fumare se e solo se lo vogliamo sul serio: ossia perché riconosciamo con sincerità la piena irrazionalità gravemente dannosa dell’abitudine e della dipendenza dal tabacco. Ma questo non era il caso di Alberto – che non voleva smettere perché fumare era dannoso, bensì perché era l’unico modo per mantenere una traballante stima di sé, nonché per mantenere sotto controllo qualcosa nel momento in cui tutto gli sfuggiva dalle mani. Quando quel tutto è invece stato da lui riconosciuto e gestito con intelligenza e sicurezza…la motivazione a smettere…è andata in fumo. Per usare le parole della sua ultima seduta, proprio su questo tema: “è proprio vero, sa, che a volte chiediamo la cosa sbagliata pensando alla cosa giusta. Guardi me. Ero venuto per non fumare e me ne vado, ora, perché ho imparato ad essere sereno anche di fronte alle avversità. Siamo fatti così noi uomini: spostiamo i problemi per poterli risolvere!”

Ancora una volta, sono in debito con l’intelligenza spontanea di un paziente: quale migliore definizione del senso teorico e clinico della psicoterapia ipnotica possiamo trovare se non quella contenuta nelle parole conclusive di Alberto? Anche noi psicoterapeuti ericksoniani facciamo così: spostiamo metaforicamente i problemi dei nostri pazienti per aiutarli a risolverli: impariamo reciprocamente a parlar d’altro per poter affrontare sul serio  le cose veramente serie che non possiamo nominare se non per via traslata.

 

Sono altresì convinto, che tutta la psicoterapia faccia – in modi molto diversi e raffinatamente opposti e tra loro antinomici – lo stesso: parliamo d’altro per poter parlar sul serio.

Altresì sono convinto di come, nel contesto delle varie pratiche psicoterapiche – che possiedono  tutte una loro consistenza teorica e clinica – la psicoterapia ipnotica ericksoniana, così come sopra contestualizzata ed esemplificata possieda una peculiare versatilità ed efficacia nella gestione della domanda terapeutica soprattutto ove essa tenda a presentarsi espressiva non solo di processi “classicamente” difensivi ma che in tale difensività lasciano intravedere una valenza metaforica, un modo già inconsciamente traslato di enunciare e gestire la sofferenza psichica.

 

 

 

 

Riassunto:

 

Attraverso la sintetica esposizione di un caso clinico ove la richiesta appare formalmente definita e chiara (smettere di fumare), si vuole evidenziare:

 

1.      la flessibilità che la psicoterapia ipnotica consente, se usata con intelligenza e creatività, di gestire la richiesta terapeutica secondo una prospettiva non sintomatologia e quindi con piena attenzione e rispetto della sua complessità intrapsichica;

2.      l’efficacia e la coerenza di una modalità psicoterapica che, senza scotomizzare la fenomenologia delle resistenze inconsce del paziente, le accoglie, non le commenta e le “restituisce” metaforicamente, all’interno di un rapport nutrito da trance e una implicazione affettiva rispettosa dell’autonomia del paziente;

3.      la pervasività personologica e, in un certo senso strutturale, profonda dei processi di modificazione positiva del comportamento e del modo di autopercepirsi del paziente ottenuti all’interno ed in forza di un approccio psicoterapico “ecologico”, “naturalistico” e non direttivo, che recepisce e integra, nell’esperienza biografica,  culturale e “tecnica” del terapeuta,  le fondamentali acquisizioni e indicazioni di Erickson nonché aspetti essenziali dei modelli teorici e clinici consegnati nei Manifesti della Scuola.

 

 

Abstract:

 

Through  the analysis of a case where the patient asks to be helped quit smoking, the Author aims at pointing out:

1.      the flexibility of hypnotic psychotherapy in managing to treat patient’s formal symptom request in a wider clinical frame, where deeper reasons and meanings of the same request are taken into consideration and given back to the patient so as to allow a general improvement of his inner resources;

2.      the effectiveness and consistency of a the therapeutic strategy of handling the whole range of defence mechanisms without any direct intervention and the use of a metaphore framed context of trance induction which are respectful of  the intrapsychic complexity of the patient;

3.      the power of the hypnotic psychotherapy to trigger by means of different ways of communication and rapport building , personological modifications which are so deep and emotionally rooted as to help the patient manage the problems and existential difficulties which have been formally not taken into consideration within the therapeutic contract

 

 

 

Bibliografia

Sito del dott. Ivano Lanzini

Sito del dott. Ivano Lanzini