Docente Scuola Europea Psicoterapia Ipnotica
AMISI – Milano
Breve: una psicoterapia possibile?
Quelle che seguono vogliono essere solo brevi note introduttive ad una riflessione e chiarimento circa una qualificazione della moderna psicoterapia: quella concernente la sua “brevità”, la sua “short-term orientation”.
Si sa, per lo meno, si dovrebbe sapere, da parte di “specialisti della parola” (quali dovremmo tentare di essere o divenire) che spesso le parole non solo sono pietre, ma intervengono potentemente nella costruzione di schemi di apprensione concettuale della realtà (i.e. formazione di idee-concetti) capaci di creare realtà…illusorie o di conferire di soppiatto e con l’eleganza del gioco di prestigio (appunto, linguistico) una “realtà” o un “significato” nuovo, diverso a ciò che prima era dato per ovvio e scontato – con la conseguenza di dare l’illusione, la parvenza di parlare della stessa cosa quando, in realtà, si stanno usando parole di diversa accezione per parlare della stessa cosa. Che, in questo modo, non è più però la stessa cosa.
In filosofia, simili trucchi linguistici, si chiamano paralogismi.
Bene. Penso che la qualificazione di “breve” alla psicoterapia sia o rischi di essere una modalità paralogistica per cambiare di significato, per introdurre discontinuità concettuali nel modo di intendere la psicoterapia – senza però dar parvenza e conto di ciò. Anzi, lasciando che tutto resti formalmente come prima.
Proverò a render conto di questa premessa, attraverso un percorso argomentativo che si snoderà come tentativo di evidenziare la rilevanza di quegli interrogativi (che i cultori, anzi gli “ideologi” della brevità psicoterapeutica, i “brevisti” o “corti” paiono non vedere od occultare). Eccone alcuni tra i tanti:
Forse il modo migliore per rispondere a questi interrogativi - per far sì che essi trovino “sponda” concettuale e risonanza emotivo-affettiva in ciascuno di noi - forse è quello di lasciarli lì, in sospeso: di permettere loro di agire come sfondo complessivo al nostro dibattito, da agire come clima problematizzante a tutto il nostro dire. Sì, forse è opportuno far così. Per ora. Se vi sarà tempo e bisogno, ci addentreremo in risposte più formali – alcune delle quali avranno comunque modo di delinearsi in successivi lavori.
Per ora e in questa sede, ci sembra comunque opportuno proporre, in via del tutto provvisoria e, lo ripetiamo, introduttiva le seguenti considerazioni da intendersi come semplici working assumptions:
Ed è forse da qui, dai parametri di congruenza, adattabilità, adeguatezza del nostro costruire relazioni significative ed efficaci dentro il setting terapeutico che dovremmo forse ripartire per approfondire meglio la natura della psicoterapia e l’originalità di quella neo-ericksoniana, in particolare, anche al fine di distinguerla dal novero sempre più articolato e meno epistemicamente supportato delle psicoterapie brevi (a vario orientamento strategico e non).
[1] Riportiamo in forma più formalizzata la Relazione introduttiva al Seminario su “La terapia neoerickosniana nei disturbi d’ansia edepressivi nel contesto delle esperienze della vergogna e della colpa”, organizzato dallAISDA a Modena il 20 maggio 2007. Le informazioni bibliografiche sono disponibili presso l’Autore.
tratto dalla rivista italiana di Ipnosi ePsicoterapia Ipnotica anno gennaio 1994
1. Terapia e cura: le implicazioni teoriche di una analisi linguistico-filologica.
2. PSICO-TERAPIA: una "cura" per ciò che è patologicamente umano e umanamente patologico.
3 TRA SYCHE E BIOS: osservazioni su campo psicoterapico e medico-biologico. Una possibile collaborazione integrativa.
4. "Conclusioni"
Cercheremo nella presente relazione di conseguire due obiettivi: anzitutto, quello di documentare la problematicità pro- fonda, perché di qualità epistemica, della connotazione e finalità "curativa", appunto, "terapeutica" della psicoterapia; conseguentemente, di dimostrare come proprio in tale problematicità siano consegnati tanto i limiti e le ambiguità strutturali della psicoterapia, quanto i suoi tutt'altro che marginali livelli di attendibilità come strumento di comprensione e aiuto nelle situazioni psico-esistenziali di disagio.
1. Terapia e cura: le implicazioni teoriche di una analisi linguistico-filologica.
"Terapia " dal greco (a sua volta connesso col verbo) è un termine specialistico. Vale a dire che esso compare storicamente, agli inizi dell'800, e storicamente si diffonde entrando nel linguaggio, con una connotazione che è immediatamente disciplinare e non universale. È insomma un termine che condensa in sé non frammenti di esperienza comuni agli uomini nel loro semplice vivere sociale, bensì frammenti di sapere appartenenti ad alcune, specifiche modalità di conoscenza, nonché di alcune specifiche pratiche tecnicizzate "Terapia", infatti, ha fin dal suo apparire designato e significato un tipo o la generalità, la classe dei modi, delle tecniche e degli strumenti utilizzati dalla medicina al fine di conseguire il ristabilimento delle normali condizioni di funzionamento dell'organismo umano. In modo più formalizzato. Possiamo allora dire che "terapia " è un termine che si colloca in quello spazio concettuale che ha, ad un suo estremo teoretico, un sapere scientifico: quello della medicina (intesa come disciplina finalizzata allo studio della organismo umano e delle cause delle sue alterazioni anatomiche e funzionali) e all'altro estremo, un sapere tecnico, applicativo, scaturente dall'utilizzo concreto (clinico) del sapere scientifico in un contesto curativo, iscritto in un orizzonte fenomenico somatico. Proviene da tutto ciò la legittimità epistemica di inserire il termine terapia quale, "medio" in un enunciato analogico-proposizionale del tipo:
MEDICINA: TERAPIA = TEORIA
SCIENTIFICA: TECNICA
Se quanto sin qui evidenziato è corretto, altresì corretto diviene allora concludere che si dà uso legittimo del termine terapia solo in un contesto medico di cura. E poiché Il contesto medico di cura e iscritto In una sequenza concettuale (ed epistemica) che è: somatica, in rapporto all'oggetto di intervento e studio; - obbiettiva- obiettivabile, in rapporto al conseguimento (e accertamento del verificarsi di positive modificazioni somato-funzionali), possiamo/dobbiamo aggiungere che "terapia" è un termine legittimo solo se rinvia al soma (ivi incluse le sue più raffinate strutture e dinamismi biochimici e neurologici) e a modalità mediche:
farmacologiche, chirurgiche ecc., delle sue modificazioni.
E psico-"terapia", allora?
Ci troviamo di fronte, qui, ad un uso improprio del termine? Ad un suo uso metaforico o mistificato come da anni ribadisce T.Szasz, e come con vigore polemico sostenuto, sino a pochi anni or sono, da settori non marginali della psichiatria alternativa " e della "antipsichiatria "? Ci troviamo di fronte ad una contraddizione in termini? Prima di rispondere a questi interrogativi tutti dotati di notevoli implicazioni epistemiche e pratico-applicative e persino giuridiche conviene attuare un breve detour , e prendere in esame un termine, linguisticamente contiguo a quello di "terapia ".
Ci riferiamo al termine "cura". Cominciamo, allora, con il notare che, a differenza di "terapia", "cura" è un termine che non nasce in un contesto o in una accezione immediatamente specialistica. Non rinvia cioè immediatamente né ad un sapere disciplinare né a specialismi e specialisti di tale sapere. Esso, in puntuale raccordo con il suo etimo latino, designa anzitutto una modalità relazionale : ossia un rapporto tra un soggetto e un altro soggetto (oppure, talvolta, anche un oggetto) che è connotato da dinamiche emotivo-affettive, quali la sollecitudine, l'interesse, la preoccupazione, l'attenzione partecipe ecc.. In questo suo reticolo linguistico originale, "cura" sta ad indicare in prima istanza ed essenzialmente un "aver-cura di": cioè un "prendere-interesse-a"; un "essere-solleciti-verso"; uno stare particolarmente attenti a/per; o anche un preoccuparsi (appunto, un occuparsi "in anticipo") di/per qualcuno o qualche cosa.
E infatti, cosa si cura? Di cosa si ha cura in questa accezione primi genia del termine cura? Dei figli, della casa, di un oggetto che ci è caro o che appartiene a chi ci è caro, Non pensiamo di semplificare all'eccesso, asserendo che "cura" è n termine che trova il suo spazio concettuale all'interno di un orizzonte che è relazionale ed emotivo. Un orizzonte in cui l'attore della cura " è una persona che più che curare transitivamente curare-qualcuno cura intransitivamente: si- prende-cura di, ovvero prende cura di qualcuno per lui significativo. Per cui cioè vi è un interesse: un essere, sentire intimo e comune. Arrestiamo,. per ora, questa nostra breve disamina del termine "cura " , e tentiamo di vedere e di meglio formalizzare le sue differenze specifiche ed essenziali rispetto al termine "terapia " ciò ci risulterà utile per meglio valutare a quale di essi potrebbe essere ricondotto il termine "terapia" in quanto denotante una "terapia-cura" psicologica Una prima, essenziale differenza concerne, come poc'anzi osservato, la natura o qualità e origine specialistica, e quindi il "quantum " di sapere disciplinare in esso contenuto. Da questa angolazione, pare indubbio che il termine "terapia " si carichi di una valenza conoscitiva e di una portata ed efficacia applicati va ben superiori e chiari di quello di "cura " che, infatti, per converso, rinvia più che ad un "sapere" (e tanto meno ad un sapere disciplinare: che "è conoscenza"), ad un avvertire, ad un sentire l'altro come soggetto/oggetto al tempo stesso bisognoso e significativo Una seconda essenziale differenza è rintracciabile poi dalla altezza dell’oggetto cui si rivolgono "terapia" e "cura". L’oggetto della "terapia " , infatti, non è praticamente mai un oggetto totale, ed è sempre un oggetto fisico-somatico (o, se si preferisce, un oggetto elettivamente, preminentemente fisico-somatico), laddove, oggetto di "cura " è sempre un oggetto totale e, in ogni caso, mai solo somatico. In questo senso, possiamo dire che "terapia" è termine contiguo (anche se, per eccesso, in quanto più specialistico) al termine rimedio per o contro qualcosa; mentre "cura " è contiguo al termine interessamento per qualcuno/ qualcosa. Una terza essenziale differenza è poi quella per cui "terapia" è un termine sostanzialmente estroverso " o transitivo esso cioè implica un immediato e inevitabile spostamento osservativo e concettuale sull’ oggetto della terapia, scotomizzandone l'attore: il terapeuta.
L'opposto esatto è predicabile, invece, per il termine "cura", che sempre anche se con diverse modalità, a seconda del contesto linguistico rimanda anche all’attore, a colui-che-cura, che si-prende-cura-di. Giacché l’ "aver cura" sempre trova il suo senso, il suo fondamento e la sua ragione nell’interesse per chi/ cosa si (ci si prende) cura. Infine, una quarta essenziale differenza (che, per certi aspetti, altro non è se non il corollario necessitato della terza) è che il termine terapia" si esplica in un asse relazionale di tipo asimmetrico , in cui , soggetto e oggetto della terapia si configurano rispettivamente come il polo attivo e passivo della relazione. Mentre nei "prendersi cura di" la qualità relazionale è decisamente più dinamica: tale cioè da implicare un livello di "passività " o, più precisamente, di ricezione del l'altro anche nell'attore della cura, appunto, in colui che si prende cura di qualcuno per qualcosa. possiamo ora chiederci: a quale di questi due termini è più legittimo avvicinare quello di "terapia psicologica " (di psicoterapia)? ovvero, in senso più operativo: possiamo avvicinare ciò che lo psicoterapeuta fa col suo paziente (o "cliente") a ciò che fa il medico con il suo proprio paziente; o dobbiamo considerarlo più simile a ciò che fa il soggetto (qualsiasi esso sia) , quando ha/si prende cura di qualcuno? O ancora e con maggior forza aforistica, . potremmo chiederci: lo psicoterapeuta cura o si prende cura? Applica, somministra un trattamento, oppure entra in una relazione particolare? Non poche ragioni ci farebbero propendere per il secondo versante di questi interrogativi. E quindi ci spingerebbero ad ascrivere la psico-"terapia " alla classe delle relazioni "curative" ma in senso non terapeutico ma di interessamento e partecipazione e, virtualmente, di aiuto. il terapeuta - qualsiasi psico-terapeuta - infatti:
a) non utilizza un sapere medico;
b) non interviene sul soma, né sui suoi sotto-sistemi;
c) si rapporta sempre ad una persona nella sua globalità meta- somatica;
d) opera mediante "strumenti" o mezzi a-specifici (perché presenti in qualsiasi rapporto umano) che sono, appunto, la comunicazione e la relazione;
e) prova e mostra sempre (anche se con modalità molto diversificate) interesse alla/per la persona con cui è in relazione. Possiamo, su questi dati, concludere allora che la psicoterapia non è una terapia? Ovvero, che per il suo tramite si attua una "cura " che possiede una qualità "curativa" sostanzialmente identica a quella reperibile "spontaneamente" in tutte le f relazioni umane, in cui un soggetto si prende in qualche modo cura di un altro? Ancora: possiamo dire che la qualità curativa della psicoterapia non è essenzialmente diversa da quella che possiamo scorgere nel rapporto tra una madre e i suoi figli; tra un amico sincero ed un altro amico; tra un insegnante sensibile e i suoi alunni, ecc.? E che quindi, in sostanza, lo psicoterapeuta attuerebbe una "cura " , meglio "curerebbe" nella forma del dare al paziente ciò che quest'ultimo avrebbe potuto già ricevere se le circostanze glielo avessero concesso da un padre, da una madre, un amico, un marito, un insegnante ecc. ? La nostra risposta è sostanzialmente positiva.
Siamo cioè dell'avviso che in effetti la psicoterapia:
Poiché pensiamo l'opposto e riteniamo che questi fraintendimenti siano oggi particolarmente perniciosi tanto per lo sviluppo della psicoterapia in quanto classe di pratiche specialistiche compiutamente autonome da quelle mediche e medico-psichiatriche; quanto per lo sviluppo -a quello precedente niente affatto contraddittorio - quello della collaborazione sistematica tra psicoterapia e campo medico (neurologico e psichiatrico), riprendiamo subito l'analisi sin qui condotta sulla natura e la qualità o "essenza " non-medica della psicoterapia, per meglio evidenziare quelle che a nostro avviso sono le sue corrette implicazioni e prima ancora le sue ragionevoli basi teoriche e cliniche.
2. PSICO-TERAPIA: una "cura" per ciò che è patologicamente umano e umanamente patologico.
Asserire, come poc'anzi fatto, che la , psicoterapia appartiene alla classe delle . relazioni umane significative e che "cura " secondo una logica e con effetti non sostanzialmente diversi da quelli reperibili in tutte le relazioni umane significative può, a prima vista, sembrare sminuente per la psicoterapia. Per lo meno, può apparire come indice della mancanza, in psicoterapia, di un insieme valido e scientifico di conoscenze. Cosa può mai sapere e scientificamente conoscere uno specialista, come lo psicoterapeuta, che in fondo non fa altro che fare ciò che fare potrebbe o potrebbe aver fatto un padre, una madre, un innamorato/a, un amico ecc. ? E, in effetti, cosa c'è poi mai di "scientifico" in una relazione umana significativa? Quale sapere può darsi in essa o da essa ricavarsi? Quale sapere scientifico ? . Certo non un sapere paragonabile –per qualità e portata epistemica -a quello che nasce nello studio metodicco, rigoroso, controllato dell'organismo umano! Certo non questo sapere. Ma questo sapere è tutto il sapere ? Ovvero: il sapere è solo questo sapere scientifico-sperimentale? Prima di rispondere, facciamo un passo indietro. Torniamo alla categoria di "relazione umana significativa" che abbiamo più volte utilizzato e cerchiamo di chiarire cosa stia a denotare. In estrema sintesi, possiamo ire che essa indica un rapporto tra due o più persone strutturato nel tempo e per lo più significativo. Ma che vuol dire significativo"? Significativo è ciò che contiene un significato. E un significato è ciò che evoca un determinato insieme i immagini mentali (concetti) ed emozioni (vissuti).Una relazione umana significativa è allora un rapporto strutturato al cui interno e in forza del quale due o più soggetti elaborano idee e vissuti. Quelle idee e quei vissuti che entrano, strutturandolo, nel loro iter esistenziale nonché nella composizione contenutistica del "sapere di sé": del loro pensarsi e viversi. Possiamo allora aggiungere – scusandoci per il carattere semplificato del passaggio che le relazioni umane significative sono la modalità, squisitamente umana " , (cioè essenziale per la specie biologica chiamata homo sapiens sapiens) attraverso la quale gli uomini vengono elaborando tanto il loro modo di pensarsi e viversi che di rapportarsi reciprocamente. E poiché l'uomo è, essenzialmente, quella specie biologica che trova nella capacità. di pensarsi e di viversi e di relazionarsi la sua connotazione più interna e tipica: la sua specificità, possiamo asserire che le relazioni umane significative sono la modalità squisitamente umana attraverso la quale gli uomini divengono ciò che sono: si aprono cioè al campo del possibile e del non-necessario, non- necessitato. In una parola: si presentano come species biologici). dotata di "eccedenze" meta-biologiche (anche se pur sempre biologicamente garantite): quelle eccedenze che, in questa sede, ci limiteremo a chiamare culturali . Ma se l'uomo è tale, o meglio, se l'uomo si fa se tesso, si fa "lui" cioè individuo all'interno di relazioni umane significative, possiamo altresì dedurre che ogni uomo, n quanto singolo, è la risultante di un universo relazionale filtrato secondo modalità esse stesse legate ai contenuti significativi di tale universo, così come appaiono o sono apparsi al singolo individuo. Ciò comporta allora che ciascun uomo, ciascuno di noi è ciò che sa e vive di sé alla luce di ciò che di sé ha appreso nella storia delle sue relazioni significative . Ma ciò che noi sappiamo, viviamo e sentiamo di noi ...siamo noi. E, al tempo stesso, noi siamo noi (siamo cioè ciò che sappiamo, sentiamo e viviamo di noi) in .quanto abbiamo pensato, sentito e vissuto/con degli altri: i nostri altri significativi . Noi, quindi, siamo la geografia dinamica dei nostri rapporti con gli altri significativi. Di "altri" che ci siamo portati dentro" : giacché dentro, inevitabilmente dentro di noi è chi in noi ha prodotto una risposta mentale ed motiva. Di chi ha un "significato" e perciò diviene significativo .Dire che la psicoterapia appartiene alla classe delle elazioni umane significative è dunque semplicemente riconoscere che essa appartiene al piano fenomenico stesso del formarsi dell'uomo. È dire al tempo stesso della sua banalità e della sua eccezionalità. Della sua "banalità " , perché essa non si discosta in nulla (in nulla di essenziale ) dalla comune esperienza relazionale significativa degli uomini nel loro vivere comune, quotidiano. Della sua "eccezionalità ", perché "eccezionale" in quanto estremamente particolare è 'effetto che ciascuna , relazione significativa produce sui termini in relazione. Banale ed eccezionale è, in questo senso, ciascun uomo. Ciascuno di noi. Ma non è tutto. Dire che la psicoterapia appartiene e, anzi, è (o dovrebbe essere) un tipo di relazione umana significativa implica altresì riconoscere ad essa le stesse virtualità mutative di tali relazioni. Conseguentemente, comporta la legittimità di intendere il suo "curare" come appartenente alla classe fenomenica dei mutamenti nelle forme e contenuti del sapere-di-sè, del viversi, del sentirsi –che si verificano nelle relazioni significative comuni, non specialistiche. Tutto questo, a sua volta, consente di asserire che la psicoterapia possiede la "curatività" tipica delle "buone " relazioni umane significative. Che, insomma 'fa bene" e "aiuta" come fa bene e, chiunque aiuta avere o avere avuto una .'buona" relazione con genitori, amici insegnanti, educatori, mogli, mariti, figli ecc... Riconosciuta, e in questo modo concettualizzata, la qualificazione relazionale- significativa alla psicoterapia, resta aperto però il problema di come ciò sia possibile. Ovvero, di come una relazione che è pur sempre specialistica, tecnica e indubbiamente anche artificiosa (e in qualche caso, pure molto artificiosa) possa produrre ( n. b. quando li produce) effetti paragonabili come qualità essenziale -a quelli scaturenti in relazioni umane per definizione non tecniche, rigidamente formalizzate e non a pagamento. Questa possibilità è tutt'uno col sapere disciplinare che precede, fonda sorregge la psicoterapia. E questo sapere disciplinare, a sua volta, altre non è, in fondo, che l'insieme delle ipotesi e delle teorie psicologiche attraverso le quali gli psicoterapeuti intendono, concettualizzano e pensano la dinamica delle relazioni umane significative, nonché l'impatto che esse hanno nel far sì che l'uomo divenga ciò che è e che il paziente sia ciò che appare essere, e soffra così come appare soffrire. Possiamo allora (provvisoriamente) concludere rapporto al primo fraintendimento che volevamo evitare - asserendo che la psicoterapia:
Non senza una curvatura aforistica, potremmo condensare questo intreccio proposizionale, dicendo che la psicoterapia è una tecnica relazionale finalizzata alla restituzione dell'individuo alla sua storia relazionale criticamente e serena- mente "rivisitata". E che quindi è una cura non medica e però .espressiva i un organizzato sapere disciplinare. Altresì è una cura non terapeutica, bensì efficace: esattamente dell'efficacia . potente e suggestiva, fragile e ambigua (e mai per sempre garantita) che è reperibile nelle relazioni umane.
3 TRA SYCHE E BIOS: osservazioni su campo psicoterapico e medico-biologico. Una possibile collaborazione integrativa.
Ma in che senso e per quali ragioni –anche epistemiche- una modalità curativa siffatta può e deve collegarsi, come da noi suggerito al fine di evitare quello che abbiamo chiamato "secondo grave fraintendimento della natura della psicoterapia", con la modalità curativa medica stricto sensu? E in che modo? Non dovrebbe invece intercorrere tra queste modalità terapeutiche una differenza incommensurabile, qualitativa? E del resto: quali punti di contatto possono mai arsi tra una tecnica essenzialmente relazionale e cioè tale da risolvere proprio in tale sua relazionalità tanto "l'oggetto i intervento" quanto le sue modalità "curative" ed un insieme di procedure quelle mediche essenzialmente bio - somatiche: farmacologi- che, chirurgiche ecc.? e ragioni che fondano senso e qualità di tale collaborazione e collegamento tra prassi terapeutica medica e prassi psicologica sono di carattere epistemico, clinico, pragmatico. Vediamole separatamente. Abbiamo evidenziato poc'anzi la specificità relazionale nella psicoterapia nonché, sul piano concettuale, l suo essere espressione di una teoria (di un complesso di teorie) sul disagio psichico fondate sul versante genetico relazionale , (interiormente rielaborato) di tale disagio. Per tale motivo, abbiamo definito la curatività della terapia psicologica come virtualità mutativa dello psichismo umano sostanzialmente identica alla virtualità mutativa delle normali" relazioni umane significative. Come altresì visto, questo modo di concettualizzare la psicoterapia è a sua volta espressivo di una concezione psico - sociale del processo evolutivo al cui interno l'uomo diviene ciò che è. E cioè, anzitutto, diviene essere coscienziale, soggettivo, relazionale: cristallo dinamico di rapporti umani interiorizzati. Orbene, possiamo e dobbiamo ora aggiungere che questa specificità coscienziale - relazionale umana, se vogliamo; questa sua connotazione o "eccedenza" meta-naturalistica (meta- naturale essendo ciò che non si muove più solo sul piano di una causalità determi-nistica fisicamente indotta e controlla- bile), è pur sempre un fenomeno naturale e naturalisticamente indotto . È un fenomeno certo paradossale ("la meta- naturalità di un ente naturale"), ma non per questo meno vero o assurdo. L 'uomo è sempre e comunque un ente biologico. In quanto tale è sempre comunque soma: nello specifico, è quel sistema somatico così raffinato da esprimere quel meraviglioso sottosistema comunemente (e non del tutto propriamente) chiamato cervello .L'uomo è pertanto un ente neurologicamente (che poi vuol dire ancora e raffinatamente, "biologica- mente") speciale, e trova in queste sue sofisticate strutture e funzioni neuro- corticali la sua originalissima specificità biologica. Il suo tratto strutturalmente distintivo (perché specie-specifico) nell'universo organico del "bios", del vivente. Al tempo stesso, proprio questa sua specificità biologica è ciò che gli consente di porsi nella condizione unica fra tutte le specie viventi di rinvenire nell'interazione con i suoi simili i modi i costruzione di sé come bios-soggettivo . Appunto, come bios meta-biologico - essendo la soggettività un ordine fenomenico, una classe di fenomeni dotata di una logica di funzionamento di valenza e connotazione culturale: appartenente cioè al campo, all'orizzonte della elaborazione, codificazione, trasmissione (apprendimento di informazioni . Ma appunto: biologico e meta-biologico; neuro-corticale e psicologico, naturale (culturale stanno tra di loro in un intreccio che è dinamico e funzionale . Anzi, che è funzionalmente strutturato. E quindi tale per cui, nell'uomo, non si dà mai l'uno senza l'altro e al tempo stesso non si dà nemmeno coincidenza , ossia traducibilità dell'uno nell'altro. Esattamente come gli strumenti di un 'orchestra non rinviano, con necessità logica, ad alcuna particolare struttura melodica, né ad alcuna esecuzione particolare, benché quest'ultima non si dia in assenza di quelli. Lo studio biologico e quindi medico latu sensu dell'uomo è quindi lo studio delle condizioni materiali, organiche dell'esserci dell'uomo in quanto uomo: non puro bios (giacché è già a livello biologico che rinveniamo una eccedenza meta- biologica: che rinveniamo le base materiali stesse di/per tale eccedenza). Di qui la rilevanza dell'approccio medico-biologico. La sua imprescindibilità per la psicologia e per la psicoterapia, che non possono, proprio in forza delle loro originali competenze disciplinari, giungere a sole ad una comprensione globalistica dell'intreccio bio-psichico che si esprime in tutta la fenomenologia umana (n.b. se tale intreccio non fosse pervasivo dell'intera fenomenologia umana, saremmo logicamente necessitati a riproporre le aporie del dualismo di matrice cartesiana così che l'uomo ci apparirebbe talvolta come corpo, talvolta come "anima " l'anima essendo niente altro che la codificazione concettuale di un essenza umana non meta-biologica a anti-biologica ).
Di qui il senso teorico-pratico del raccordo tra psicologia e medicina, tra clinica neurologica e psichiatrica e psico terapia: nell'essere tale raccordo espressione della problematizzazione della natura meta-naturale e però naturalisticamente consentita dell'uomo. Espressione lo sottolineiamo di una problematizzazione non di una soluzione essendo quest'ultima a tutt'oggi impossibile: non in vista. Ma cos'è poi una problematizzazione se non il rinvenimento di un non sapere disciplinare? Se non il riconoscimento della necessità (dell'apporto) di un altro sapere disciplinare? Siamo del parere che questa complementare problematizzazione del biologico e dello psicologico sia l'orizzonte teorico e metodologico entro cui iscrivere tanto una concezione razionale e virtualmente scientifica del sapere disciplinare che ottende la psicoterapia, quanto una concezione non riduzionistica del sapere bio-medico. Come, infatti, la tematizzazione critica del soma (della mente come cervello, e del cervello come "strumento di produzione di cultura " e quindi come "produttore di psiche " ) è una delle condizioni indispensabili affinché la psicologia e le varie teorie psicoterapiche non regrediscano al livello di metafore o aggiornamenti di concezioni speculativo- metafisiche dell'uomo; allo stesso modo, la tematizzazione critica dello scarto tra bios e psiche, tra cervello e mente, tra malattia (in senso strettamente medico) e disagio psichico è a sua volta una delle condizioni indispensabili, affinché il sapere medico - psichiatrico non regredisca al livello di metafore o aggiornamenti del vecchio positivismo fisicalista e quindi alla cotomizzazione dell'umano che è nell'uomo Sul piano applicativo, questa duplice e critica tematizzazione a sua volta comporta:
4. "Conclusioni"
Avevamo iniziato questa nostra relazione evidenziando come suo obiettivo fosse quello duplice di documentare la fragilità epistemica e l'ambiguità del qualificare la "cura psicologica" come reale psico-"terapia" .E al tempo stesso, documentare come in tale fragilità fosse e niente affatto paradossalmente consegnata anche la forza teoretica stessa della psicoterapia. Abbiamo a tal fine condotto una ricognizione sia pur sintetica sui concetti di terapia (in senso medico) e di cura, al termine della quale abbiamo ritenuto legittimo ascrivere la psico-terapia alla classe delle relazioni umane significative Ie la sua qualità curativa " alla curatività reperibile in tali relazioni sub specie di modificazioni ideativo-affettive-comportamentali. Ci è ora possibile formalizzare gli esiti complessivi e provvisori della nostra riflessione nel seguente intreccio pro-posizionale:
a. in quanto modalità di intervento finalizzato ad ottenere modificazioni psico-comportamentali mediante li strumenti della comunicazione e della relazione interpersonale, la psicoterapia svela una terapeuticità di qualità non medica; che è e non può che essere intrinsecamente fragile e profonda:
b. Sempre per questa sua connotazione relazionale, la psicoterapia può configurarsi come un tentativo più o meno sistematico di "cura " fondato su schemi ipotetico-interpretativi di analisi e comprensione dell 'uomo e del suo disagio interiore, basati sull'assunzione della centralità eziologica della dimensione relazionale nel processo di produzione dell'uomo in quanto ente soggettivo. Per tale motivo, la psicoterapia si presenta oggi come un progetto ed una pratica disciplinare, specialistica di qualità epistemica critico-razionale e non scientifica : non scientifica, in una accezione "hard" del termine, perché trovando in una dinamica relazionale (e quindi nella storia dell'interazione di due soggetti) tanto l'oggetto che il metodo , di studio e intervento essa è priva delle condizioni di controllo tipiche delle discipline scientifiche (sperimentali e naturali) e delle terapie che da esse derivano; e però è pratica e progetto critico-azionale, e quindi ben più che pura riflessione retorico letteraria o puro- speculativa, perché essa è effettivamente in grado di addurre una messe sufficiente di dati (anche extra- clinicamente controllabili) atti a rendere altamente plausibile e probabilmente attendibile la centralità della dimensione relazionale nel processo complessivo di crescita e sviluppo dell'uomo: delle sue idee, delle sue emozioni, dei suoi senti- menti, dei suoi schemi comportamentali, delle forme e dei contenuti della sua consapevolezza o inconsapevolezza di sé. Per questo possiamo altresì avanzare l'ipotesi che la psicoterapia si configuri come tentativo di creazione e gestione di una relazione umana l più possibile aperta ai significati che in tale relazione il "paziente" stesso viene a porre e vuole porre. E ciò nella speranza, che a noi pare ragionevole, che lo stare con il "paziente" secondo modalità che pongano quest'ultimo nella condizione di rivedere la sua stessa vita relazione ed emotiva - consenta al "paziente" di trovare l'occasione per riprendersi stabilmente cura di sé, così facendosi autonomo: appunto, capace e responsabile di un suo originale stile relazionale, di una sua vita di significati.
1. "Avvicinarsi alle idee"
2. Premesse teoriche e già psicologiche
3. "Avvicinarsi all'oggetto"
a. Relazione e comunicazione: l'alfa e l'omega della terapia psicologica.
b. Comunicare cosa, comunicare come
" Approccio" da approcciare, derivante dal composto latino " ad prope " (andar vicino, presso) e’ un termine che designa un atto di avvicinamento a qualcuno o a qualcosa.
L’approccio di cui vorremmo parlare in questa sede attiene ad un modo di intendere e praticare I’ " ad prope", I’ andare vicino a quel qualcosa chiamato "psicoterapia".
Abbiamo detto modo di "intendere e praticare". Ciò significa che l’approccio di cui parleremo si nutre di due istanze e di due oggetti di riflessione:
Perché qualsiasi discorso di o sulla psicoterapia non può configurarsi se criticamente inteso che come discorso "intorno", "nelle vicinanze" di una realtà fenomenica ancora confusa e tantomeno rigorosamente definita: appunto, di una realtà ancora riva di chiari consensuali "confini" teorico-concettuali.
Esattamente come qualsiasi pratica psicoterapica non potrebbe ne dovrebbe allo stato attuale delle conoscenze scientifiche essere attuata se non come modalità di avvicinamento alla realtà, altrettanto complessa, sfuggente e non ben delimitata concettualmente, della sofferenza psichica.
1. "Avvicinarsi alle idee"
Si è detto di un approccio come di una avvicinamento teorico al " cosa sia" della psicoterapia. Saremmo degli ingenui se pensassimo che l’avvicinamento ad un oggetto, la sua semplice osservazione sia concettualizzabile come pura, passiva registrazione della sua fenomenologia obiettiva.
Un oggetto puramente percepito è un oggetto concettualmente "vuoto". Se si vuole è un oggetto sì registrato, ma "muto": un oggetto-sfondo. Soprattutto, un oggetto a-problematico.
Nella realtà logica e psicologica, noi ci avviciniamo ad un oggetto sulla base di un interesse e secondo una intenzionalità nella cui origine è già consegnata una pre-concezione dell’oggetto.
Più che vedere, noi "andiamo a vedere": il "se", il "cosa", il "come (e il come mai) " e il "perché" di un oggetto, di un dato, di un fenomeno; del suo accadere "così" (invece che "cosa"), del suo accadere "ora" (invece che "allora"), ecc...
In breve, noi percepiamo secondo modalità problematizzanti e interrogative. La qualità, i contenuti, il senso di questo sguardo (di questa " andar verso") problematizzante e interrogativo sono i vettori che dirigono la nostra osservazione e che ci fanno guardare l’oggetto secondo determinate angolature (: che ce lo fanno vedere "così", invece che "cosa" -quando magari l’oggetto è visibile "così e cosa").
Ciò altresì significa che noi siamo "memoria-che-guarda": che ci avviciniamo all’oggetto secondo un asse cognitivo-emotivo (l’interesse all’oggetto non essendo mai pura scelta logica e razionale) che non è in atto, che non si genera nella contingenza empirica del nostro incontro con l’oggetto, ma che ha una storia. Precisamente, la storia di ciò e di come abbiamo appreso ciò che abbiamo appreso: la storia dello sviluppo, per l'apprendimento, dei nostri stessi codici di interrogazione del mondo che ci circonda.
Avvicinarsi all’oggetto psicoterapia" ci pare allora che debba configurarsi come un avvicinarsi critico alle concezioni di psicoterapia che ci hanno insegnato o che abbiamo incontrato vuoi tramite la ricerca teorica, vuoi tramite esperienze personali, soggettive, vuoi tramite testimonianze (autorevoli e amicali) di essa. Il primo approccio alla psicoterapia, meglio l’inizio del movimento di avvicinamento ad esso, se produttivo vuole essere, non può pertanto presentarsi che come movimento di rilettura delle idee e dei modelli di psicoterapia appresi.
Una delle premesse fondamentali di quello che abbiamo ritenuto di poter concettualizzare come " approccio non direttivo e meta-interpretativo in psicoterapia" risiede proprio in questo: nel mantenimento di una forte distanza critica e di una notevole apertura epistemologica circa le "idee" sulla psicoterapia e della psicoterapia. Giacche in pochi ambiti disciplinari è dato riscontrare tra le "idee (i.e. le "costruzioni teoriche") e i loro "oggetti di riferimento" (la fenomenologia psicologica e psicopatologica dell’uomo) connessioni così spurie, contraddittorie e mistificanti come quelle reperibili in campo psicoterapico.
E questo - si noti - non per una particolare insipienza degli studiosi del campo (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti ecc.), ma per la natura stessa dell’oggetto di studio: la fenomenologia ideativa, emotiva, affettiva e relazionale dell’uomo in quanto ente che soffre di se e degli altri.
Quello che vogliamo qui evidenziare con forza anche se con inevitabile schematismo è che quando abbiamo a che fare con " dati " e "fatti" lontani, per consistenza fenomenica, dalla "cosalità" tipica del dato-fatto naturale e fisico, il piano teorico, ovvero l’insieme delle idee che elaboriamo su queste dati-fatti non cosa li interviene non solo nella forma della loro loro rappresentazione concettuale, ma anche nel processo della loro costruzione al punto che, nella massima buona fede, possiamo costruire dei fatti...non esistenti. Oppure possiamo deformarli, alterarli, distorcerli mediante un'estrapolazione ingigantita di loro aspetti parziali, settoriali, talora marginali. La consapevolezza della complessità e ambiguità del rapporto tra teorie psicologiche e" uomo (che soffre) "; e soprattutto la consapevolezza dell’intima fragilità epistemica e logico-metodologica del pensare psicologico che fa di tale pensare, spesso, più una pura ‘Ioghia doxematicà, un puro ‘discorrere opinabile e per opinioni ricco della ricchezza del discorso letterario e però, come tale discorso, anche ambiguo e confusivo (perché tramite esso tutto è dicibile: tutto e il contrario di tutto) per cui tale pensare psicologico non può ancora considerarsi pensare computamente scientifico. Questa consapevolezza duplice, lo ripetiamo, è una delle basilari premesse teoriche e già psicologiche dell’approccio non direttivo come da noi inteso.
2. Premesse teoriche e già psicologiche
Siamo dell’avviso che la forma di consapevolezza appena esposta sia di difficile applicazione pratica. Sia cioè di ardua gestione intrapsichica nella concretezza della relazione di setting. e questa, infatti, una relazione umana ove i livelli di ansia (che, almeno in buona misura, nascono da un genuino r interesse per l’altro che si declina e coniuga di fronte a noi e con noi) sono tali da imporre quasi un "bisogno" di comprensione totale dell'altro. Di capire cosa, come e perché si trovi nella situazione in cui si trova; nonché di capire come aiutarlo a venirne fuori (cosa che del resto il paziente a più riprese chiede, richiede e pretende). Ma vi è poi anche un secondo movimento intrapsichico che si oppone (e quanto potentemente!) alla pratica "interiore", all'integrazione armonica della suddetta consapevolezza nel contesto del setting. Ci riferiamo alla dinamica, narcisistico-sadica (sovente di origine infantile, talvolta indotta, o promossa dal tipo di training ricevuto, o "subito") In forza della quale il terapeuta inconsapevolmente desidera" (e in taluni più più drammatici casi, " ordina " attraverso modalità più o meno implicite e silenziose o esplicite e direttive) che il paziente "sia" come egli lo concettualizza, o "abbia" ciò che egli ha "visto in lui" , o soffra per le ragioni che egli "ha scoperto".
Dinamica questa che si fa più frequente o probabile se ciò che il paziente "è", "ha" o di cui soffre corrisponde fenomenologicamente a ciò che il terapeuta o analista "sa di se" o di se ha "magistralmente" appreso durante il suo training.
Premessa teorica e psicologica quella della suddetta consapevolezza e già formativa: ossia già funzionale ad un avvicinamento teorico e pratico alla psicoterapia capace, o per lo meno, virtualmente funzionale a eliminare o a ridurre la più sottile e profonda e subdola forma al tempo stesso di distorsione percettiva e di dirittività manipolativa: quella connessa alla nostra costruzione concettuale dell'altro da noi.
3. "Avvicinarsi all'oggetto"
e indubbio che avvicinarsi all'oggetto psicoterapia" rinvii ad un esame del " cos'è" della sofferenza psichica (ossia del campo di intervento dell'agire psicoterapico) e, in seguito, del "cosa è" della psicoterapia, ovvero ad una definizione delle sue modalità e ragioni di intervento.
Per evidenti ragioni di spazio, non possiamo concederci qui l'obiettivo, pur importantissimo (e in altra sede da noi già trattato), della disamina critica delle varie teorie o modelli di sofferenza psichica (nonché dei modelli della struttura e della dinamica psichica umana). A questo riguardo, non possiamo che ribadire come, anche in questo caso, dovrebbero valere quelle avvertenze critiche da noi tracciate nel precedente paragrafo.
Più utile, al fine di meglio tracciare se non una compiuta "carta di identità" dell'approccio non direttivo e meta-interpretativo, almeno un suo apprezzabile "schizzo", più utile si diceva è evidenziare alcune delle sue più essenziali connotazioni pratiche e applicative.
a. Relazione e comunicazione: l'alfa e l'omega della terapia psicologica.
Prenderemo le mosse dal seguente intreccio proposizionale (della cui assertività necessitata ci scusiamo):
1. la psicoterapia (al di là di tutte le sue molteplici e contraddittorie diversificazioni teoriche e tecniche)
appartiene alla classe delle relazioni umane specialistiche e significative:
a. "classe delle relazioni umane": perché in essa sono reperibili, quali "protagonisti" dei soggetti umani che entrano in un rapporto dotato di sufficiente durata temporale, di sufficiente coinvolgimento emotivo, di sufficienti livelli comunicazionali da renderlo, a questo livello, sovrapponibile a ciò che nel linguaggio e nella realtà comune (a- specialistica e a-professionale) denominiamo "relazione umana";
b. "specialistiche": perché tra i protagonisti di tale ~ relazione, uno, (il terapeuta o analista) si presenta portatore di particolari competenze professionali di origine disciplinare; nonché perché relazione scelta dall'utente stesso con finalità "speciale" (appartenente alla classe della" cura ");
c. "significative": perché proprio per la particolarità della coniugazione di aspetti umani e specialistici, la relazione psicoterapica si riveste di una acuta pregnanza psicologica (soprattutto per l'utente); di una pregnanza che la rende particolare e particolarmente rilevante (i.e. dotata di profondo significato umano ed esistenziale) per chi la richiede.
Se quanto qui asserito e accettabile, allora consegue che avvicinarsi alla psicoterapia vuoi dire avvicinarsi alla fenomenologia delle modalità relazionali e comunicative che la strutturano, che la specificano: la fanno essere "lei" nel novero delle molteplici pratiche specialistiche.
Ancora, vuoi dire che sarà nel modo di comunicare e relazionarsi che troveremo la base empirica delle differenze intra-psicoterapeutiche.
b. Comunicare cosa, comunicare come
La comunicazione è il processo dell'interscambio informativo-classificatorio al cui interno e in forza del quale avvengono tutte le interazioni umane e tutte le umane modalità relazionali.
Ciò che comunichiamo, come lo comunichiamo e perché lo comunichiamo sono le modalità attraverso le quali noi veniamo ad interagire con i nostri simili, così creando tra noi e loro le invisibili e profonde coordinate al cui interno definiamo la nostra relazione con loro: il "chi è" del nostro essere con loro, il "chi è" del loro essere con noi.
Comunicare, in altri termini, non è solo trasmettere informazioni ma, al tempo stesso, è anche definire il nostro ricevente, nella forma della definizione della nostra relazione con lui.
Proprio questa intima bivalenza, questa intima e duplice virtualità informativo-definitoria è ciò rende il processo comunicativo (umano) dotato di altri due esiti bivalenti: quello del favorire la conoscenza e crescita nostra e degli altri (dell'emittente e del ricevente); quello della manipolazione dei termini in comunicazione.
Ovviamente, per "manipolazione", non dobbiamo intendere qualcosa di grossolanamente violento o aggressivo. Men che meno di esplicito e consapevole (ne per l'emittente ne per il ricevente).
Più sottilmente, dobbiamo intendere un processo, in larga misura inconsapevole, e tale per cui la manipolazione si presenta nella forma della definizione del sapere e dell'essere dell'altro attuata mediante parole (o silenzi, che delle parole sono il contrappunto; o gestualità, che delle parole sono il commento meta-linguistico).
Bene, se analizziamo il comunicare psicoterapico alla luce di questo duplice parametro informativo/manipolativo,
potremo notare come quelle modalità comunicative chiamate "interpretazioni" (che costituiscono lo "strumento di lavoro" dell'intero universo delle psicoanalisi) presentino una forte accentuazione della dimensione manipolativa.
Che significa "interpretare"?
Ortodossamente, l'interpretare è 'enunciazione di asserti contenenti informazioni sul "veramente detto" del paziente (del ricevente).
L'analista, interpretando, compie una operazione composita, in forza della quale comunica al suo ricevente una
"verità":
- che a lui sfugge;
- che lui non solo non sa, ma che sa diversamente,
- una verità che pertanto si oppone al suo sapere di se.
Interpretare, quindi, non è un puro dare informazioni. Bensì è un definire (anche in senso etimologico: dare dei confini, stabilire dei limiti) le forme e i contenuti della consapevolezza che il soggetto ricevente ha di se. In breve, è un intervenire sul sistema di riferimento cognitivo-emotivo in forza del quale l'individuo elabora forme e contenute della propria autopercezione.
Si noti, l'interpretare no è un semplice "spiegare". Più profondamente è uno spiegare " contro" : esattamente uno
spiegare che si oppone alla coscienza, al piano cognitivo e emotivo non del paziente ma che è il paziente. Esemplificativamente: comunicare al paziente che le sue manifestazioni di stima all'analista, in realtà, contengono alti livelli di aggressività verso di lui, coprono sensi di inferiorità, collegati a sentimenti analoghi provati in rapporto ad una figura paterna vissuta come onnipotente vuoi dire enunciare asserti che non si limitano a fornire nuove informazioni sul "detto" del paziente, ma che ridefiniscono il senso complessivo, l'intero orizzonte di significato in una misura e secondo una prospettiva che non solo non è iscritta nel" detto" ma che addirittura è da esso formalmente negata. Emerge qui pertanto come l'interpretare sia, sostanzialmente, un destrutturare per via della ricodificazione del senso e del significato del detto (sognato, fatto) del ricevente-paziente .
Ora quello che ci interessa rilevare in questa sede non è solo e tanto il livello di attendibilità delle griglie teoriche (i modelli di mente e di patologia psichica) che consentono all'analista di procedere al suvvisto processo di destrutturazione interpretativa, bensì e soprattutto la valenza obiettivamente manipolativa di tale procedere.
Giacche, anche se il processo interpretativo fosse vero (anche se, cioè, il detto dell'analista fosse realmente il "veramente detto" del paziente) resterebbe pur vero che tale processo interpretativo si pone come attività di decentramento del focus coscienziale del paziente e quindi come attività che pone il paziente nella condizione di ri-vedersi e ri-sapersi secondo uno sguardo che non nasce da lui ma da un altro: dall'analista.
Chiamiamo manipolazione qualsiasi modalità comunicativa che pone il ricevente nella condizione di un apprendimento eteronomo.
Conviene soffermarsi un attimo su questa nostra asserzione. E chiarire:
- che per apprendimento "eteronomo" non intendiamo l'acquisizione di dati informazionali puri e semplici: tale acquisizione, infatti, costituisce il minimo comun denominatore di tutte le forme di apprendimento; per certi aspetti è una delle plausibili definizioni dell'apprendimento in quanto tale;
- che, per conseguenza, l'apprendimento è sempre eternomo o, meglio, sempre presenta una dimensione eteronoma: un suo dipendere dall'altro da noi, da ciò che l'altro ci comunica;
- che la qualificazione eteronomica, da noi usata in senso negativo, si riferisce ad un tipo particolare di apprendimento: precisamente all'apprendimento-di-noi, e cioè a ciò che veniamo a sapere, comprendere e valutare di noi, della nostra vita, del nostro modo di essere, sentire ecc.;
- che tale qualificazione negativa dell'eteronomia non è da intendersi in assoluto, ovvero non implica che l'apprendere di noi per il tramite dell'altro, sia in se e per se cosa negativa. E non lo implica per il semplice fatto che ciò avviene regolarmente e normalmente: come regola e norma. Noi, in effetti, giungiamo a sapere di noi (e qui non ha importanza se questo sapere sia "vero" o "falso") per il tramite degli altri: e ciò avviene dall'infanzia in poi. Gli altri (l'universo dell'alterità) sono l'orizzonte psico-relazionale al cui interno noi ci facciamo noi, così raggiungendo determinate forme e livelli di consapevolezza;
- infine, che tale qualificazione negativa si fonda proprio sullo scarto e, anzi, a nostro avviso, sulla profonda diversità/avversità che intercorre tra il "normale" apprendimento di noi per via eteronomica nelle normali (non specialistiche) relazioni umane e l'apprendimento di noi per via analitico-interpetativa giacché quest'ultima, in forza della sua essenza "esplicativa", del suo sguardo "profondo", soprattutto, del .suo scavalcare le forme contingenti del "nostro sapere di noi" non agisce come comunicazione aggiuntiva all'universo delle nostre "normali" esperienze
comunicative, bensì come comunicazione autorevole e vera, quindi come aggiunzione intrusiva di uno sguardo su di noi che non è da noi costruito: che è eteronomo perché fondato sulla " legge altrui ".
L'approccio non direttivo e meta-interpretativo in psicoterapia seconda parte
c. Il falso e il vizio dello stile interpretativo analitico
d. Analisi come auto-analisi relazionale
e. Comunicare come ascolto, comprensione, testimonianza e partecipazione
Per esemplificare quanto appena detto secondo moduli formali:
è indubbio che noi possiamo giungere a scoprire "nuove cose" di noi, a intravedere certe nostre dinamiche interne (certe
nostre paure ed esitazioni, come pure certi nostri desideri e aspirazioni) dentro una "normale" relazione umana. Anzi, più questa relazione è "normale e umana", più essa dovrebbe favorire questo nostro sviluppo interiore, questo allargamento della nostra coscienza di noi, questo apprendimento più preciso e sottile sul chi siamo e come "funzioniamo".
Aggiungiamo anche, che più questa relazione è significativa e cioè si riveste per noi di valore strategico, perché strategici sono i bisogni e i desideri che soddisfa o le paure che allontana e fa superare più essa produrrà significative modificazioni nelle forme e contenuti del nostro sapere di noi (nel "bene e nel male"): quante cose possiamo apprendere di noi dentro un profondo rapporto di amicizia?! o dentro una relazione amorosa?! Forse che l’esperienza dell’essere amati da un altro/a non ci dispone ad ascoltare di più l’amato/a? E forse che questo maggior ascolto non promuove silenziosamente un nostro ascoltarci alla luce del detto dell’amato/a? Forse che i suoi rimproveri, le sue osservazioni, le sue attestazioni di stima non risuonano con particolare, suggestiva, penetrante efficacia dentro di noi, così mutando, almeno in parte, il nostro angolo visuale di noi?
Ma, appunto, tutto ciò avviene spontaneamente: in forza della natura e della qualità della relazione umana (significativa) in cui siamo immersi. Molto diverso è ciò che accade nella via interpretativa nel setting. Qui vi è una intenzionalità esplicativa e anticoscienziale; vi è una evidente finalità (legittimata dalla sicurezza "scientifica" dell’analista) a produrre uno spostamento complessivo e radicale della prospettiva da cui ci guardiamo. Qui, nel setting analitico, il nostro "qui e ora" è sistematicamente rinviato e riletto in base al nostro "là e allora": qui il nostro sapere è confrontato e disconfermato dal nostro non sapere. ..pur sapendolo (questo è l’inconscio da un punto di vista sistemico-relazionale!). Qui il nostro sentire è riletto alla luce del nostro sentire diverso e opposto, ecc. .. ..Ma, si dirà, tutto questo è fatto... "a fin di bene", per "curarci", per "guarirci". O, se vogliamo usare un linguaggio più sofisticato, è fatto per ridurre i nostri meccanismi di difesa, per allargare la nostra coscienza, per integrare più armonicamente il pulsionale con il razionale e il culturale; per togliere le radici profonde dei nostri sintomi, per permetterci di non ripetere il passato: (quel passato che, rimosso, ritorna prepotente in noi e su di noi, rendendoci copie aggiornate della nostra infanzia edipica).
Concediamo tutto questo. E non per ammissione retorica. All’opposto perché siamo dell’avviso, che ci pare ragionevole, che, in effetti, tutte le finalità sopra elencate sono valide e possiedano una reale virtualità "curativa" questo è del resto il motivo per cui "non possiamo non essere e dirci psicoanalisti". Non "concediamo" però che la comunicazione interpretativa (e, più ancora, quella ricostruttivo-genetica) sia funzionale a quelle finalità. Anzi riteniamo che le contraddica in nuce et in spiritu. E questo perché il conseguimento di simili obiettivi presuppone che il" conseguitore", l’attore, il protagonista di simile impresa sia il soggetto stesso. .E’ Freud stesso che si muove e "autorevolmente" in questa direzione quando, nei suoi (rari) scritti di tecnica psicoanalitica, da un lato avverte di rispettare i tempi di rielaborazione del paziente (invita cioè a rispettare il processo dinamico del suo contraddittorio entrare in contatto con le sue verità), dall’altro invita l’analista a comunicare per via interpretativa:
a) sulla base dell’analisi del transfert;
b) e parlando quando il paziente si trova già lui "ad un passo" dalle sue verità.
Si muove autorevolmente ma solo in linea di principio e per di più tra incertezze e contraddizioni (che svelano un pratico disattendere dei principi). Ci chiediamo, infatti: che senso ha interpretare "quando il paziente è a un passo dalla sua verità"? Se è ad un passo, perché non fare in modo che lo compia?
Perché non aspettare? Perché non essere coerente fino in fondo con l’altra indicazione ad accettare i tempi di rielaborazione delle resistenze? (la sua Durcharbeitung?) Siamo del parere che questa contraddizione freudiana non esprima un mero errore logico, una incongruenza, una aporia della tecnica della psicoanalisi.
Più profondamente testimonia:
a) di un suo falso;
b) di un suo vizio.
c. Il falso e il vizio dello stile interpretativo analitico
Il falso: non è vero, e in ogni caso è molto dubbio, che i pazienti di Freud si siano mai trovati, da soli, ad un passo dalle loro verità inconsce. E’ cioè falso e, "più profondamente", è una ingenuità di natura para-religiosa, fideistica credere che un paziente da solo e cioè senza precedenti ausili interpretativi, giunga ad un passo dal "recuperare spontaneamente" il suo "amore omosessuale per il padre"; il suo desiderio di "prendere in bocca il suo pene" e di avere con lui un rapporto anale; dal "riconoscere" le sue fantasie distruttive verso il seno materno, o il ventre materno (popolato di peni paterni, di feci e urine e fratelli più o meno reali); è falso credere che spontaneamente senza sottili suggerimenti interpretativi la "nostra" paziente si trovi ad un passo dal realizzare l'angoscia del trovarsi castrata, il desiderio di compensare la sua umiliante e vergognosa mutilazione con il "furto" del pene paterno, e poi in subordine con il desiderio del pene paterno e poi ancora di un bambino con/da lui e infine con un bambino con un equivalente paterno. I pochi casi clinici di Freud, e quello celeberrimo de "l’uomo dei lupi" in particolare (nonché quelli di tanti autorevoli psicoanalisti) sono lì a testimoniare, con evidenza quasi sperimentale, di quante e quali sottili (e talvolta dirette e grossolane) interpretazioni sia nutrito il percorso che ha condotto i loro pazienti a quel passo. Ovvio allora che Freud inviti a comunicare, via interpretativa, "solo" quando si è a quel passo: perché non comunicare quando già lo si è fatto fin lì? Ovvio che se non si interpreta anche quest’ultimo passettino il paziente. ..non lo farà mai perché prima ne ha fatti da solo ben pochi ! Il vizio: è quello duplice, di natura filosofica ed epistemologica. della sfiducia profonda verso le risorse del paziente e verso l’uomo in generale; e della concezione dogmatica ed ingenua della verità psicologica (e più in generale ancora, delle condizioni di attendibilità del conoscere psicologico-clinico).
Circa il primo vizio, è da notare come esso derivi dal modello pulsionale freudiano e dalla sua teoria dell'inconscio (oltre che, probabilmente, da idiosincrasie personali, non che da una certa cultura mitteleuropea ed ebraica a cavallo del secolo). L’uomo freudiano (e quindi anche il paziente freudiano) è agito da forti e strategicamente vincenti tendenze auto-eterodistruttive di origine biologico-pulsionale.
Egli, pertanto, va guidato sulla strada del riconoscimento dello loro proteiformi manifestazioni sintomatologiche e relazionali. Senza un aiuto esterno, quell’uomo rimarrà sempre e comunque schiavo di tali forze che in ogni caso potrà solo gestire e diluire e mai vincere. Il "male oscuro" non alberga nell’uomo: lo domina. Come il peccato originale, da cui possiamo riscattarci ma di cui conserviamo le tracce nella nostra natura corrotta e bisognosa di continuo aiuto e ammaestramento, di guida, di "cura d’anime".
Benché collocate ad un livello teorico, scientifico e culturale immensamente più avanzato e dotato anche di reali virtualità conoscitive, la psicoanalisi, in quanto tecnica interpretativa della psiche, unitamente al suo modello di " cura " pare mantenere pressoché intatte due connotazioni-chiave della direttività e manipolatività tipiche dell’istituzione religiosa e dell’universo dell’ideologia (e delle conseguenti relazioni di potere): i connotati del possedere una verità e del comunicarla; e quelli del voler adeguare gli altri a questa verità (qui non si è peccatori ma... si oppongono resistenze).
d. Analisi come auto-analisi relazionale
Negare immediata attendibilità all’impianto teoretico (della psicanalisi) non significa negarne alcuni fondamentali contributi euristici e conoscitivi. Parimenti, non significa misconoscere la realtà dei meccanismi di difesa, della vischiosità dei dinamismi nevrotici, della nostra umana e profonda tendenza a rimuovere ciò che ci fa paura o ci è sgradevole riconoscere, della dimensione inconscia, e del nostro essere costruiti all’interno di un processo relazionale che ci mistifica, reprime e distorce a noi stessi. Significa l’opposto. E precisamente trarre le corrette " conclusioni " teoriche e metodologiche in sede terapeutico-analitica.
In particolare:
Con una immagine mutuata dalla chimica e dalla biologia, potremmo dire che ciò significa concettualizzare il lavoro e la presenza comunicazionale e relazionale dell’analista come quella non solo di un catalizzatore: di un "quid" che favorisce l’innescarsi di processi (in questo caso analitici) nel paziente, ma di un auto-eterocatalizzatore: un quid capace di innescare processi di autoanalisi che poi procedono compiutamente per conto loro. L’analista, in breve, dovrebbe comportarsi come quegli enzimi che innescano un processo catalitico che a sua volta produce gli enzimi che occorrono per la sua autonoma (e non più eterodipendente) prosecuzione. Ovviamente, questa metafora dell’analista come agente di un processo di autoeterocatalisi è. ..solo una metafora. E va presa solo per il suo approssimato indicare di un modo di intendere e praticare il rapporto terapeutico teso a garantire il massimo di autonomia e di "libertà" (cognitiva ed affettiva) al paziente. Una metafora, insomma, che non può assolutamente riassumere in modo compiuto la complessità dell’interazione paziente-analista.
Va poi notato che tale metafora se lasciata a se stessa rischia di ridursi a "pia intenzione", o al massimo, a lodevole ripetizione di una pia intenzione: forse che a tale intenzione non si ispira la stessa psicoanalisi e moltissime altre correnti psicoterapiche? Quale psicoterapeuta o analista, infatti, non sostiene e proclama di lasciar liberi i propri pazienti? Non è forse in opposizione alla "crassa" manipolatività della suggestione ipnotica nella sua configurazione a la Charcot, Bernheim, liebault che la psicoanalisi freudiana vanta l’estrema non direttività delle sue tecniche e dei suoi stili comunicazionali? In che senso concreto, allora, intendiamo noi parlare e indicare di stili comunicazionali non direttivi? Ci troviamo nell’obbligo, una volta argomentato il perché del rifiuto dello stile e della logica interpretativa psicoanalitica, di tracciare modalità e logica di stili comunicazionali alternativi.
e. Comunicare come ascolto, comprensione, testimonianza e partecipazione
Per rendere conto, sia pure nei limiti di una introduzione, della qualità teorica e applicativa di questo nostro stile comunicazionale conviene prendere la mossa da alcuni dati-base, attinenti al modo di essere del paziente all’interno del setting, che a noi paiono sufficientemente solidi da suscitare consenso specialistico:
1° dato: il paziente che soffre di un disagio psicologico si trova in una particolare situazione emotiva caratterizzata da confusione (non sa bene che cosa abbia e perché); da senso di vergogna (il paziente sente non solo di avere qualcosa che non va, ma anche di essere qualcuno che non va -"c’è qualcosa di sbagliato in me" perdipiù circondato da persone che invece "vanno" dalle quali teme di essere giudicato e respinto); da senso di impotenza (il paziente non sa come uscire dalla situazione in cui si trova esente, avverte, spesso si convince che non ne uscirà mai); da senso di solitudine (il paziente si sente profondamente solo in senso radicale e riassuntivo dei precedenti vissuti: egli è solo perché si sente diverso, perché teme di comunicare quella che ritiene la sua diversità, che è poi la sua particolare debolezza, perché, in quanto impotente, ha paura del confronto con gli altri che infatti incontra settorialmente e cioè sulla base di forti meccanismi e comportamenti di difesa; inoltre il paziente è solo perché è veramente chiuso, assediato, dai/nei suoi pensieri ed emozioni).
2° dato: la situazione psicoaffettiva sopra descritta si acutizza all’interno del setting e questo indipendentemente dalla realtà comunicazionale e relazionale del terapeuta. Il paziente cioè sposta sull’analista la sostanza del suo complessivo modo di reagire e relazionarsi con gli altri (con i suoi altri), così vivendo l’analista come rappresentante di tutto ciò che non è lui: che lui teme e che desidera ,
3° dato: in forza di 1 e 2, il paziente si trova, nel contesto di setting, in una situazione di estrema ipersensibilità o iperrisonanza emotivo-affettiva-cognitiva che da un lato lo spinge ad innalzare al massimo i meccanismi di difesa; dall’altro lo rende estremamente sensibile alle comunicazioni dell’analista (questa duplicità o bivalenza delle risposte emozionali interne del paziente si mantiene a lungo nel corso dell’analisi).
Questi, appena tracciati, non sono dati riassuntivi ed esaustivi della complessità psicoemotiva che caratterizza il paziente in terapia. Certo, però, sono rappresentativi di alcune sue dinamiche base di valenza strategica: perché tali, se non modificate, da incidere pesantemente e negativamente sulla sua esperienza psicoterapica e, quel che più conta, sul mantenimento della sua condizione di disagio e scacco esistenziale. Siamo del parere che la totalità delle comunicazioni in analisi debba funzionalizzarsi alla modificazione del quadro sopra delineato e a null'altro di sostanziale giacche la modificazione di tale quadro è (fatta parziale eccezione per le situazioni di disagio psicotico) di per se sufficiente tanto a produrre significative modificazioni sintomatologiche quanto altrettanti significativi allargamenti del campo di consapevolezza di se del paziente.
Ma cosa vuol dire "funzionalizzare al suddetto quadro le comunicazioni dell’analista"?
In estrema sintesi, ciò implica:
a: che l’analista (o terapeuta) sia anzitutto capace di : comunicare la sua capacità di ascolto del paziente. E questo nel modo più ovvio e apparentemente banale (al punto da essere, in fondo, l’unico): e cioè ascoltando realmente il paziente.
Ma che significa ascoltare ?
"Semplicemente" ciò che recita qualsiasi dizionario: e cioè udire, sentire e voler capire le comunicazioni dell’altro (nel caso specifico del setting, con la consapevolezza umana e professionale, "tecnico-specialistica" della complessità e multidimensionalità -linguistica e metaverbale del piano comunicativo).
Che significa ascoltare "realmente"?
Qui "realmente" significa "per davvero". E cioè non rinvia ad una compiutezza comprensiva, ad una" precisione" nella traduzione dei significati (profondi e non) del comunicato del paziente. Più semplicemente e..."realisticamente", significa ascoltare con la pura tensione e intenzione di ascoltare: di capire ciò che il paziente ritiene di volerci dire a livello dell'io, ossia con l’onestà, la buona fede, e la sincerità di chi comunica di se, del suo modo intimo, ad uno sconosciuto/a -a quello sconosciuto/a che è poi l’altro (si ricordi quell’altro che rappresenta, sta-al-posto-di tutti quegli" altri" che nella realtà hanno circondato e circondano il paziente).
In termini ancora più sintetici: ascoltare realmente significa, per noi, in analisi, accettare integralmente il piano di significato del paziente. E quindi, anzitutto, riconoscerlo e poi rifletterlo: cioè essere per lui suoi testimoni: testimoni del suo orizzonte di significato nella sua accezione fenomenologica: ossia, ancora, nel suo darsi e dirsi così come si dà e si dice senza alcun commento aggiuntivo, e a maggior ragione, senza alcuna traduzione a un diverso e "più vero" livello di significazione. Se dovessimo condensare aforisticamente il messaggio profondo che l’analista, tramite siffatta modalità di ascolto, dovrebbe comunicare al paziente, tale messaggio si "ridurrebbe" a questo: "sappia che io le credo: che credo che lei crede a ciò che dice e prova e sente " .
Messaggio cui, come corollario, si aggiunge quello del: "proprio per questo, desidero comprendere bene ciò che , .." lei dice esente e prova" .
b: " credere a ciò che il paziente dice" .Detto così sembra quasi un azzeramento della tradizione psicoanalitica. Addirittura, una sorta di abiura del meglio dei suoi contributi euristici e conoscitivi della psiche umana: quei contributi che abbiamo dichiarato di voler salvaguardare (e, aggiungiamo ora, di difendere da tanti assalti neo-cognitivistici, "psico-corporei" e neurobiologici oggi di moda). Manteniamo il nostro impegno. "Credere a ciò che il paziente dice" non vuoi dire assumere, in sede di teoria della tecnica psicoterapeutica, la dimensione coscienziale del paziente (e dell’uomo in genere) come I’alfa e I’omega della sua verità. Noi, come uomini e esattamente come tutti i nostri pazienti, ben sappiamo di possedere l’affascinante e umanissima virtualità di saper mentire. ..nella massima buona fede; di saper razionalizzare l’irragionevole; di saper rimuovere tutto ciò che ci provoca dolore e soprattutto quello connesso al ferimento del nostro narcisismo.
Ben sappiamo di saper negare l’evidenza (talvolta impressionante) delle nostre tendenze egocentriche, avide, invidiose e più in generale della nostro privatissimo e sacrale culto del" nostro caro lo " .Altresì ben siamo consapevoli della nostra capacità una delle più notevoli e complesse e antiche di reagire ai nostri impulsi più antisociali comportandoci nel modo più altruistico e sociale. ..così però rimanendo, nel profondo, ancora gli stessi al punto che, se si presenta l’occasione se, freudianamente, possiamo farla in barba al Super-Io ecco che ritorniamo, con estrema velocità e spontaneità alla nostra "naturale" a/antisocialità pulsionale.
"Credere al paziente" non vuoi dire rimuovere tutto questo. Ma anzi trarre la più dovuta delle conseguenze: che nasce dal sapere di come i meccanismi di difesa sopra narrativamente riportati siano. ..meccanismi di difesa, ossia processi dinamici attivati e organizzati da una "intenzione" (in larghissima misura inconscia) autoprotettiva; la conseguenza del saper rispettare la legittimità profonda di tali meccanismi e, per questa via, di essere compiutamente sintonici con la loro origine autoprotettiva.
Ora tale sintonicità è tutt’uno con la capacità di comunicare (e realizzare) l’intenzione di ascolto testimoniale; appunto, di sapere ascoltare il paziente rendendogli testimonianza del nostro volerlo capire e del nostro far fede della sua sincerità esperienziale. Giacché proprio siffatto sapere ascoltare si concretizza, nella dinamica relazionale del setting, in’ un "saper essere", ossia in una modalità complessa e integrata (cognitiva, emotiva, affettiva) di porsi con/all’altro, di essere presenza, che da un lato lo fa progressivamente (e, certo, lentamente) uscire dal sentimento angoscioso e disperato, di essere solo (e/perché diverso e incomprensibile); dall’altro lato lo rende più sicuro e fiducioso di se e dell’altro con cui comunica di se.
Chiamiamo "partecipativo" questo modo d’esser perché tramite esso il detto del paziente, in quanto ascoltato e accolto per ciò che significa per lui (in termini cognitivi e psico-affettivi), gli viene restituito sì nel suo significato (e cioè senza aggiunte interpretative magari vere ma non a lui disponibili) ma in modo arricchito dall’essere tale significato un significato compreso e condiviso: reso "parte" a/di un altro. Di un " altro" , facciamo notare, che resta pur sempre tale: cioè una persona diversa dal paziente. Del resto, è proprio il mantenersi "altro" dell’analista ciò che rende efficace e terapeutico, per il paziente, il suo sentirsi compreso da lui.
Proprio perché un altro lo ascolta-comprende, comunicandoglielo congruentemente, il paziente fa l’esperienza della relazione: appunto, di una non-solitudine e di una non-radicale diversità (rispetto all’universo degli altri). Siamo del parere che il protrarsi e mantenersi in ogni caso e cioè di fronte a tutto ciò che il paziente può dire di questa posizione di ascolto, testimonianza, comprensione e presenza partecipe da parte dell’analista costituisca "l’enzima essenziale" del processo catalitico del paziente. Fuor di metafora, costituisca il medium comunicativo-relazionale base sia del processo di allargamento della consapevolezza e della riappropriazione di se da parte del paziente; sia delle modificazioni sintomatologiche. Con questo non vogliamo asserire che questa esperienza comunicativo-relazionale sia sufficiente a produrre e spiegare la complessità e totalità del processo terapeutico. Più limitatamente che ne è la condizione indispensabile.
L'approccio non direttivo e meta - interpretativo in psicologia terza parte
f. La comunicazione come libertà e rispetto
3. Verso la psicoterapia: approssimazioni finali
f. La comunicazione come libertà e rispetto
Evidente, nelle approssimazioni sopra tracciate, ci pare l’influenza della lezione rogersiana. Difatti, non esitiamo qui a
dichiarare di ritenere la proposta terapeutica di Carl Rogers come il più consistente contributo allo sviluppo della psicoterapia dopo Freud. Anche se, aggiungiamo subito, quello che riteniamo valido e profondamente innovativo dei contributi rogersiani da un lato ben poco ha a che vedere con la sua concezione dell’uomo e con le sue teorie ezipatologiche del disagio psichico (decisamente settoriali e povere); dall’altro si inserisce in un quadro epistemico e concettuale molto lontano da noi quello della psicologia umanistica americana (di Maslow e Rollo May, oltre che di Rogers). Non abbiamo qui tempo e opportunità per approfondire queste forti differenziazioni, anche oppositive (per le quali rimandiamo a Psicoanalisi non direttiva).
In questa sede ci preme "concludere" evidenziando ciò che all’interno delle modalità di ascolto e comunicazione sopra descritte ci sembra agire come potente fattore terapeutico. Abbiamo prima osservato come l’esperienza dell’essere
ascoltati e compresi per quello che intendiamo dire costituisce la cornice essenziale del rapporto terapeutico. Aggiungiamo ora che tale esperienza, in realtà, è viatico ad un’altra più complessa e tardiva e sottile (così sottile e sfumata che per lungo tempo non e nemmeno avvertita dal paziente): ci riferiamo all’esperienza dell’essere rispettati e liberi. Che significa essere rispettati nel contesto di setting?
In breve significa scoprire, da parte del paziente, che le sue parole contano, e, tramite le sue parole,
i suoi sentimenti, i suoi desideri, persino i suoi timori e ciò che egli stesso ritiene delle assurdità.
Più semplicemente ancora: significa prendere atto, per il tramite del comportamento comunicativo e
relazionale del terapeuta, che il suo sapere di sé (per quanto provvisorio, confuso e contraddittorio
paradossalmente, persino quando si presenta come non sapere, non capire di sé) viene assunto e rinviato
coerentemente e genuinamente dall’analista come estremamente valido e, in ogni caso, come più vero e
importante di qualsiasi detto del terapeuta.
Vorremmo essere chiari su questo punto, onde evitare equivoci La comunicazione terapeutica così come da noi concepita non si traduce in una sorta di aggiornamento del rephrasing rogersiano. Essa, proprio perché basata sull’ascolto e comprensione dei significati del paziente, nonché sulla testimonianza della loro credibilità, e proprio perché in ogni caso agita da un altro rispetto al paziente, prevede e concede ( anche se secondo tempi e modalità che qui non possiamo adeguatamente descrivere) anche il dissenso: ovvero l’esplicitazione di pareri e opinioni differenti dalle sue. Il fatto è che tale differenziazione di giudizio e valutazione da un lato è sempre presentata come ragionevole e però solo ragionevole ("mi sembra di poter dire che le cose non stiano proprio così, ma non posso dire che stiano assolutamente cosà"); dall’altro è sempre e genuinamente, convintamente presentata come subordinata al punto di vista del paziente ("questo è quello che a me ragionevolmente sembra. Però tenga ben presente che se a lei pare errato, il suo parere è per me più importante e vero del mio, perché è lei che ha più informazioni di sé di quante mai ne potrò avere io. Quand’anche, nel tempo, il parere che le ho comunicato si mostrasse più vero o semplicemente vero, sarà sempre lei ad accertarlo ed il suo accertamento gli conferirà una verità che è comunque più "piena e vera" della mia").
Ci teniamo a chiarire - perché in ciò riteniamo risieda un fondamentale valore e fattore terapeutico della suddetta forma comunicativa - che ciò che abbiamo schematicamente "’ riportato come nostro messaggio al paziente corrisponde compiutamente a ciò che pensiamo; non è cioè un artificio retorico, sottilmente persuasivo (se così fosse, non abbiamo dubbi che il paziente lo avvertirebbe o noi stessi non saremmo in grado di gestire tale massaggio durante l’intera analisi). Diversamente è l’espressione verbale di un convincimento teoretico profondo.
Proprio questo genuino assumere e commentare come se stesse valorate le comunicazioni, le verità del paziente e ciò che sta alla base dell’esperienza del rispetto che è genuino perché genuina (anche se estremamente sofisticamente sul piano teorico ed epistemologico) è la nostra intenzione di non attribuire al paziente alcuna "verità profonda" che non sia quella che egli viene comunicando di sé nel corso della sua analisi.
Tale esperienza - che a nostro parere possiede una forte valenza restitutivo-riparativa: va cioè a dare (secondo modalità squisitamente umane perché reperibili in qualsiasi buona relazione umana) ciò di cui il paziente, in quanto persona, in quanto "ciascuno di noi" ha sofferto e avvertito (anche drammaticamente) l’assenza (e cioè vale a dire quel sentirsi accettati integralmente che i genitori, i fratelli, gli amici, i colleghi, il marito, la moglie ecc. non hanno saputo/potuto dare) - tale esperienza poi produce quella successiva e sbalorditiva della libertà, del poter sentirsi ed essere realmente liberi all’interno di una relazione.
Per libertà qui di nuovo intendiamo la possibilità, pienamente garantita, di dire e fare quello che ci pare giusto senza timore di alcuna ritorsione: in particolare di quella ritorsione sottilissima e potente che è la ritrazione di affetto.
Il paziente, in altre parole, avverte che qualunque cosa farà, anche se non condivisa da noi sulla base di ragionevoli ma provvisori e settoriali pareri, potrà sempre contare:
- sulla comprensione più piena delle sue ragioni;
- sull’assenso più pieno e incondizionato circa il suo diritto a farla;
sulla permanenza genuina di una genuina accettazione di lui come persona degna di rispetto e stima.
3. Verso la psicoterapia: approssimazioni finali
Siamo ben consapevoli dell’estrema parzialità di quanto comunicato. Parzialità rispetto all’oggetto e rispetto al nostro stesso approccio. Altresì siamo consapevoli della problematicità di alcune nostre asserzioni - che andrebbero adeguatamente sviluppate e integrate anche da esemplificazioni cliniche. Come detto all’inizio però, nostro obiettivo era tracciare un percorso di avvicinamento ad un modo più aperto, problematico e critico alle idee e alla realtà della psicoterapia, ben sapendo della difficoltà... a trovarla. Ci premeva, comunque, evidenziare alcune idee - guida che ci hanno accompagnato e che, per molti versi, abbiamo noi stessi incontrato (nonostante le nostre "certe" convinzioni) nel percorso della nostra formazione e pratica psicoterapica.
Queste in particolare:
a. se la psicoterapia (specie se ad indirizzo analitico) vuole, come dovrebbe, sempre mantenere la sua istanza conoscitiva; si cioè fare psicoterapia vuoi significare anche un "fare per conoscenza" allora è oltremodo indispensabile uniformare l’agire e l’indagare psicoterapico ad alcuni criteri - base dell’indagine scientifica (ovviamente, con tutte le cautele legate allo specifico oggetto di studio della psicologia e psicoterapia). In particolare è indispensabile un rapporto estremamente cauto e critico con tutti i modelli di mente, di sofferenza psichica e di psicoterapia, così da servirsene come ausilio e problematizzazione di una realtà complessa e non come strumenti (inconsapevoli) di una sua illegittima e deformante mutilazione.
b. Se la psicoterapia vuole (come deve, anche in forza di un imperativo etico) essere occasione di aiuto a che soffre di un disagio psichico, allora essa non può fare ameno di adeguarsi, nelle sue modalità comunicative e relazionali di applicazione, all’istanza del rispetto il più scrupoloso della autonomia e della libertà del paziente, e quindi evitare, ridurre al minimo, tendenzialmente eliminare tutto ciò che sembra rispondere molto più alle ansie, alle insicurezze, alla voglia di capire a tutti i costi (e per questa via, di manipolare) del terapeuta e dell’analista che ai reali bisogni del paziente.
c. Infine, se la psicoterapia, in quanto relazione profondamente asimmetrica, vuole ottemperare ai suoi fini " curativi ", essa deve strutturarsi su modalità di comunicazione e relazione atte a consentire al paziente di uscire da questa asimmetria (nella quale poi si condensano le asimmetrie significative della sua vita: con i genitori, i figli, i colleghi, il marito, la moglie, ecc.) e a fargli acquisire spazi progressivamente più ampi di autonomia e di libertà: in particolare quelli concernenti la sua libertà di costruirsi un proprio autonomo sapere di sé.
nel contesto della clinica psicologica e della pratica ipnotico-psicoterapica
1. A mo’ di avvertenza: il termine autostima è diventata una di quelle “catch all word” – una di quelle espressioni “pigliatutto” che hanno raggiunto una diffusione – e, conseguentemente, una apparente ovvietà – quasi parossistica nel campo della psicologia e della psicoterapia mass-mediale.
2. Intendo per “mass-mediale” l’insieme di quelle informazioni e cognizioni psicologiche che si diffondono rapidamente e , appunto, massivamente, in forza del medium (televisivo, “giornalistico” e pocket-librario) che utilizzano e, spesso, del “personaggio” (altrettanto mass-mediato) di cui spesso rappresentano “il pensiero”.
3. Questa psicologia – e’ bene notarlo per inciso ma da subito (perché di estrema utilità ai fini della nostra riflessione) – meriterebbe di divenire oggetto di un attento esame anche al fine di meglio comprendere il nuovo universo delle illusorie aspettative-psico” che vanno commercialmente riempiendo l’immaginario collettivo, nonché a “colmare” quei suoi spazi e luoghi carichi di angosce e insicurezze di natura complessa e in larga misura anche nuova (perché probabilmente connesse a nuovi trend culturali).
4. In questa psicologia “diffusa” il termine autostima viene a svolgere il ruolo di catalizzatore concettuale di generiche e confuse aspirazioni e – si osservi bene – promesse di “psico-benessere” . Così che, alternativamente, si viene a configurare un messaggio (rivolto anche a medici e psicologi – specie se giovani) per cui l’autostima si trova ad apparire
a. Vuoi come premessa (e quindi causa) del “benessere” psicologico ed esistenziale: “se possiedi una buona autostima allora sarai felice”,
b. Vuoi come obiettivo e fine, come coronamento e prova del raggiungimento del suddetto benessere: “la buona autostima è manifestazione e conseguenza del tuo raggiunto equilibrio emotivo, affettivo, relazionale: del tuo successo”.
5. Come se non bastasse, il termine autostima può prestarsi ad usi equivoci – sia sul piano della teoria che della pratica – nel campo della nostra specifica ricerca e attività psicoterapica ad orientamento ipnotico-ericksoniano. E questo perché il termine autostima – anche a causa di 2.3.4. – può di fatto venire a sovrapporsi, vuoi secondo una logica causale (3.a) vuoi secondo una logica “testimoniale”(4.b), al “termine” - molto noto e anch’esso, invero, se non pigliatutto, di certo, passe par tout - di “rinforzo dell’Io” – col quale comunque ha qualche indubbia relazione.
6. Per questi motivi, cercheremo in questo incontro:
a. di fornire una accettabile “circoscrizione” (di natura pragmatica) del termine autostima;
b. di tracciare alcune indicazioni per una sua traduzione nel contesto della clinica psicologica in generale, e della psicoterapia ipnotica in particolare.
7. Pensiamo di poter sintetizzare uno dei più diffusi e consolidati modi di intendere l’autostima definendola provvisoriamente come il “giudizio globale e complessivo sul proprio valore/valere che un individuo possiede ed esprime – con diversi livelli di consapevolezza”.
8. L’uso del termine “giudizio” in connessione a quelli di valore-valere mostra l’origine, lo sfondo cognitivistico di questa definizione. Giudizio, infatti, rinvia a strutture e processi cognitivi di matrice valutativa: in breve, a pensieri e credenze, convincimenti (believes) che l’individuo è venuto elaborando, “costruendo” nel contesto del suo “apprendimento esistenziale”. Schematizzando – e per questo scusandoci anche con i colleghi cognitivisti – potremmo asserire che la suvvista definizione di autostima porta a “concludere” che, in fondo in fondo, noi siamo ciò pensiamo di noi: siamo la manifestazione e concretizzazione dei nostri processi autovalutativi impliciti ed espliciti.
9. Che l’autostima abbia una indiscutibile dimensione cognitiva – rinviando quindi a processi sofisticati ove l’apprendimento giochi un ruolo centrale, anche nella sua espressione più “forte” e più “aristotelicamente” umana: quella appunto che richiede pensiero e riflessione – è indubbio. Anzi è, a ben vedere, una tautologia. Se vogliamo essere epistemologicamente più precisi (così come i cognitivisti amano e ci chiedo di essere), potremmo asserire che collocare nella macro categoria del “GIUDIZIO” la species “AUTOSTIMA” equivale alla costruzione di una kantiano giudizio analitico: di una esplicitazione dell’implicito, giacchè l’autostima è appunto già un giudizio: una stima. Non diciamo insomma ancora nulla di veramente nuovo: chiariamo meglio qualcosa che avevamo già deciso di definire in un&n